Il risotto al gelsomino - Live Sicilia

Il risotto al gelsomino

Mangiare tanto, poco o non mangiare affatto? E se provaste il risotto al gelsomino?

Lui mangia troppo perché negli anni Sessanta un topolino amaranto, attraversandogli la strada, gli preconizzò la fine del mondo. Da allora accumula montagne di grassi e proteine, per cautelarsi dall’avvento dei giorni magri. Non saccheggia il frigorifero. Si tuffa tra gli scaffali ripieni di insaccati e latticini. Fa il carpiato sul formaggio svizzero. Non mastica nemmeno, per la verità. Ingurgita. Cala la merce direttamente in gola, senza passare per la dogana delle papille gustative. Alla fine si sente una schifezza. Ma l’incudine che opprime lo stomaco, gli ricorda l’aria di casa. Lo protegge dai venti dell’anima, offrendo una muraglia di materiale opponibile. E’ il suo guscio interiore.

Lei non mangia perché è un fiore. Non vuole gravare sui petali con l’ingombro di una corolla satura. Deve poter avvertire il vento ed essere inseminata da ogni alito. E’ sempre estate, nel suo barometro rotto. La stagione del languore e degli occhi fissi su un orizzonte candidamente inespressivo. Lei crede di essere una rosa, eppure si sta già trasformando in crisantemo.

Io non sono né come lui, né come lei. Mi sono salvato. Ho l’immane privilegio di avere scoperto il risotto al gelsomino, nel ristorantino sotto casa mia. Quando vengo attratto dagli opposti estremismi, del sacco che vorrebbe riempirsi e della tagliola che vorrebbe svuotare perfino il vuoto, semplicemente faccio quattro passi. Placo le mie angosce contrapposte, trovando equilibrio davanti alla misura di un piatto discreto. L’arte del nutrirsi presuppone sobrietà e fantasia. I sapori a valanga, l’assorbimento crudo delle essenze, sono altrettanti tentativi di effrazione dello spirito che ci alberga dentro. E che accetta il nutrimento del corpo di buon grado solo se riesce a trasformarlo in sensazione incorporea. Qualcosa da tenere di conto per un frammento cantabile di immortalità. Nemmeno ama gli stenti e l’assenza totale di peso, lo spirito che ci alberga dentro. Avete mai visto un paio d’ali volare senza un angelo attaccato? Torniamo al risotto al gelsomino. Chi lo prepara ha tutta l’aria di un orco ravveduto. Forse divorava bambini quando stava nelle favole o votava comunista.

Oggi, non più. Le mani del cuoco Pippo sembrano due macine di mulino. Però rimarreste sbalorditi dalla grazia con cui prepara il riso. Lo mette in fasce con la tenerezza di una madre. Lo culla fino alla cottura a puntino. Lo coccola, narrandogli le fiabe di altri risotti suoi parenti stretti. Infine aggiunge l’ingrediente fondamentale: il gelsomino. Trattasi di un fiore che miracolosamente nasce in certe storie buone e siciliane – in quelle cattive basta lo spinoso ficodindia – e sotto casa mia. Va colto al momento e adagiato nella pentola di terracotta già colma di chicchi. Il cuoco Pippo stacca il gelsomino dalla siepe con due dita rispettose, affinché non gli si sfarini tra
i polpastrelli giganti. Lo versa con garbo nel condimento vestito. E quando il piatto arriva in tavola, Dio mio! Pare un concerto dei Beatles con attempati padri di famiglia che si strappano le ciocche di radi capelli per isterico entusiasmo. Io chiudo gli occhi. Inalo il profumo con le narici dilatate allo spasimo. A malincuore, dopo eterni secondi di beatitudine olfattiva, addento l’infinito.


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