Saranno dieci anni che Andrea Camilleri ne fa novanta. E’ sempre festa intorno a lui. E senza aspettare mai la cifra tonda. Lo si celebra, infatti – e giustamente – a prescindere.
Come si troverà sempre una pagina culturale dedicata all’eterno suicidio di Cesare Pavese – o agli aneddoti di Dino Buzzati in via Solferino, o ai misteri della morte di Pierpaolo Pasolini – così non mancherà mai un inserto, uno speciale, un approfondimento di exultate sulla giovinezza del vecchio Camilleri. Adesso che Camilleri queste benedette candeline le ha spente anche per l’anagrafe un altolà, però – nella solennità – s’impone.
Troppu traficu pi nenti, direbbe lui con William Shakespeare. E un basta, per favore basta, bisogna notificarlo ai soloni coi candelabri in mano: il neo direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall’Orto, tratta Camilleri a rete unificate e così risulta peggio della buonanima di Enzo Siciliano quando metteva l’inaugurazione della Scala di Milano in prima serata. E’ giusto fare TeleVigata, personalmente non aspetto altro, ma coi modi proprio del consumo popolare: dateci Catarella, non il Te Deum.
Troppu traficu pi nenti, appunto. E un altro basta bisogna notificarlo al già detto: e si sa che Andrea fuma, che è spassoso e beve assai (non beve vino, però, dalla strage di Portella della Ginestra).
Troppu è ‘u traficu. Dal tabaccaio, spiritoso com’è, reclama il vizio scansa tutti i pacchetti con sopra scritto “danneggia il feto”, “provoca il cancro ai polmoni”, “è dannoso per i denti e per le gengive”. Ebbene, lui li rifiuta tutti – fa segno di no anche quello con la dicitura “blocca la crescita” – e dice: “Mi dia il pacchetto che fa invecchiare la pelle!”. Il suo brio è spontaneo, non è costruito e il sublime mai detto lo ha risolto Rosario Fiorello con puro lampo di genio. Ne imita la voce e dice: “Fonderò un social network che si chiama smokebook”.
E’ bellissima la voce di Andrea Camilleri. E’ già una messa in scena. Inconfondibile, potente, avvolgente, in ogni voluta di fumo – perché, appunto, Camilleri fuma – lui apre il sipario su una storia irresistibile perché la virtù vera di questo meraviglioso vecchio è di essere generoso di fabula come ogni nonno. Leggenda vuole che abbia già scritto il capitolo ultimo dei Montalbano, quello in cui il commissario, come nelle regole semplici e chiare del mondo, vive, agisce, gioisce, patisce e poi muore. Leggenda vuole che sia stato già consegnato a Elvira Sellerio e che uscirà – cento anni di salute abbia ancora Camilleri – quando il suo autore non ci sarà più. “Un modo per andarcene insieme”.
E’ – dicevo – bellissima la voce di Andrea Camilleri. Nel mentre che schiaccia olive, conta e racconta le belle e meravigliose cose di ogni tempo. Egli è racconto per gemmazione spontanea. Entra ed esce dal cartiglio creato da se stesso, e in quel suo sciorinare e sciogliere grovigli – dove è demiurgo – ne diventa parte, un tutt’uno con la narrazione a far da comparsa, antagonista, protagonista e servo di scena all’occorrenza, fino a fare le veci di un cuoco assai bizzarro che sa pescare tra aglio, peperoncino, cipolla di Giarratana e aceto per ravvivare un’insalata tutta di caratteri, colori e costruzioni semplici e così scongiurare la rottura dell’altro frutto ovoidale, il cabbasiso, e cioè quello che il Mortillaro – autorevole dizionario siciliano – definisce “picciol tubero” la rottura del quale, oltre “la voce dinotante ammirazione”, è letale.
Traficu poco ce ne vuole in questa matematica applicata qual è la scena altrimenti è giornata persa nell’affanno del ricrearsi a dare storie sopra storie. Come l’acqua sa correre lungo le contrade vive e fertili così le pagine di Camilleri, perfino quando sono unte d’arancino, vanno a nutrire la fantasia dei lettori a cui il bisogno di evasione detta una sola beata dittatura: il passatempo.
Troppu è ‘u traficu ma tutto è il padre di Montalbano fuorché uno che si prenda sul serio rispetto alle pagine eterne della Letteratura con la maiuscola. Non è, insomma, un padre delle patrie lettere. Gli s’inventa da solo, ogni volta, il libro. E pure tutta quella Sicilia è frutto di un’invenzione. Agli scogli del Quinto viale, a Plaja Grande, c’è Angelo Russo, l’attore che interpreta Catarella, sta per i fatti suoi con la canna da pesca in mano e il passante rapito dal tramonto dell’Irminio quasi non riesce a decifrare il salto tra arte e imitazione della stessa arte volendo proprio chiedergli, “scusi, Catarella, come sta il commissario?”. E così è con Roberto Nobile, a Donnafugata, l’eroico reporter di TeleVigata negli sceneggiati di Carlo Degli Esposti: finissimo anche nella scrittura, Nobile suscita quel sentimento proprio della passione civile tanto è aderente e vero nel ruolo che poi va a interpretare. Per non dire dell’immenso Marcello Perracchio, medico legale nei Montalba, genio della recitazione e antico interprete di Camilleri anche a teatro. È uno che dice mincia in luogo di minchia. Perracchio ha la declinazione attoriale iblea.
Facile gli viene ‘u traficu a Camilleri offrendo canovacci già belli e pronti nel via vai del quotidiano e lui, piuttosto, è una macchina di sogni come lo fu Federico Fellini o un inventore di mondi come lo fu – ed uguale è lo spropositato successo di mercato – Giovannino Guareschi.
A dispetto dei Roberto Saviano – di cui, oltre il marketing ruffiano, non resterà nulla – Camilleri resterà. A differenza di un Carlo Cassola, di cui non è rimasto nulla (ma che pure vendeva tantissimo), Camilleri rimarrà. A differenza di un Alberto Moravia – di cui sono rimaste le sopracciglia – Camilleri ci sarà per tanto tempo ancora. E se vale l’eredità materiale, e tale è quello che si scorge nella provincia di Ragusa – dove la telegenia ha eletto definitivamente a Scicli, a Ibla, a Donnalucata e a Sampieri e perfino a Punta Secca, la mappa di una Camillerandia – ciò che per un tavolo ai Deux Magots si risolve per Jean Paul Sartre, ciò che per la tabacalera di Lisbona si decifra per Pessoa, per Camilleri, nel frattempo trasfigurato anche nei Topolino, tutta quella Vigata di cui è cantore s’incarna anche in un modello di sviluppo nel mare grande del sottosviluppo meridionale al punto che i turisti vi arrivano tra i carrubi per respirarne non la mitologia ma la sostanza di un’isola nell’isola.
Come Fellini del quale dura ancora oggi il suo universo di Amarcord, Camilleri durerà. Come Guareschi del quale sosta intatto nel sentimento del pubblico il suo “Mondo Piccolo”, Camilleri sarà ancora stazione di posta dell’immaginario per le platee future. E come Mario Puzo – per citare un altro fabbro della narrazione a noi contemporanea – il cui presepe di personaggi è sempre vivo, foriero di linguaggi e modelli, di Camilleri, con Vigata, resterà di certo l’intero suo personale feudo letterario fatto di semplicità artigianale e di una lingua tutta inventata dilagata dappertutto oltre il canone del pittoresco e del televisionese.
Il suo siciliano, infatti – come la sua Sicilia – non esiste. E’ puro grammelot a uso di messa in scena. E come nell’opera dei Pupi la Durlindana, la celeberrima spada di Orlando, diventa Trullintana, così i “cabasisisi” di cui sopra – nell’epica di “Montalbano, sono” – mutuano i più impegnativi “cugghiuna” laddove, si noti, il plurale termina sempre con la vocale “a”, retaggio di un latinismo proprio dei verba generalia (non sunt impiccicatoria). Esempio: le “ossa” che giammai diventano “ossi”.
Andrea Camilleri, come l’inimitabile “Settimana enigmistica”, vanta un’infinità d’imitazioni e varie sottomarche ma si ritrova a essere unico e per sempre unico. E dunque – come la Targa Florio – è un unico campione, popolare e chic al contempo. Come l’Amaro Averna, è unico goccio di godurioso e robusto graspo. Come il cioccolato di Bonaiuto, quello di Modica, Camilleri è unico di vizio e ghiottoneria perché Camilleri, insomma, è l’unico possessore di quella lingua di cui lui è contemporaneamente grammatica, sintassi, morfologia, ortofonia, costruendosi l’originalità di unico immenso feudo – il suo – nella terra larga e grande della letteratura siciliana dove è solo, selvaggio e parente a nessuno.
A dispetto degli alberi genealogici, in quella letteratura di Sicilia che dall’Ottocento in poi coincide con la letteratura d’Italia, il Camilleri alle cui fronde in tanti arrivano per goderne i successi, è radice a se stesso.
S’è fatto da sé e non c’entra né Luigi Pirandello e neppure Federico de Roberto. S’è fatto da sé e difficilmente questo signore alto, con gli occhiali, capello lungo sulla nuca, può farsi scatola di luoghi comuni altrui. Quando Camilleri è solo il signor Camilleri e ha pubblicato due soli titoli – “Il corso delle cose” e “Un filo di fumo” – ha un’unica cornice intorno: gli alunni della “Silvio D’Amico”. Sono ancora da venire i tenutari dei candelabri – i mammasantissima custodi dell’opinione pubblica – quelli che oggi gli fanno luce per cavarne il chiarore. Il successo è qualcosa che riguarda altri. Non lui.
S’è fatto da sé ed è il febbraio del 1985, a Roma. I ragazzi dell’accademia di teatro sono a cena. Con loro c’è il maestro, Camilleri, appunto, che mangia e beve assecondando – buon per lui – la corpulenta sostanza di spensieratezza di tutta la compagnia. Squilla il telefono, Peppe Dipasquale va a rispondere ed è Leonardo Sciascia che parla: “Mi passa per favore Camilleri?”. Peppe è emozionato, chiama il maestro, aspetta che finisca la telefonata e gli domanda: “Che vuole da te?”. La risposta di Camilleri: “Sciascia è uno che mi vuole bene”.
Radice a se stesso, Camilleri non sconfina nel feudo del maestro di Racalmuto, non dunque in quello del Caos, non in Vitaliano Brancati, non in Elio Vittorini, non in Ercole Patti, non in Antonio Aniante, e non in Gesualdo Bufalino che pure – come Camilleri – si adopera nella fabbrica della lingua. E se vale l’aneddotica – e minchia, se vale – si conta e si racconta della pazientissima disperazione di un mito della letteratura con la maiuscola, ovvero Vincenzo Consolo, ammutolito ma impazzito per via dell’ingombrante pietra d’inciampo chiamata Camilleri.
Grande ma acido, l’autore de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, amava pensarsi assiso sul trono de “il più grande scrittore vivente”. Già si vedeva celebrato ma manco il tempo di vedere morire Sciascia e dunque succedergli che gli arriva da Comiso, Bufalino. Manco il tempo di accompagnare al camposanto Gesualdo e presentarsi all’avvicendamento ed ecco che, d’improvviso, sbucava da chissà dove Camilleri. Su quella sedia tanto ambita andava a posare le terga un autore senza particolari quarti di nobiltà – anzi, un produttore, quasi un attrezzista della RaiTv – lo stratosferico successo di vendite de “Il ladro di merendine”, poi, andava ad aggiungere un “il più venduto”, apportando così, e non solo a Consolo, un sovrappiù di bile anche all’acidità di stomaco di tanti venerandi. Quelli cui mancano sempre i diciannove soldi per fare una lira una di successo commerciale.
Radice a se stesso, Camilleri – autore del catalogo Sellerio – incontra il genio luciferino di Maurizio Costanzo e qui bisogna riconoscere l’efficacia di una trovata propria dello show: “Comprate questo libro”, dice Costanzo mostrando dagli schermi di Canale5 la copertina del “Ladro”, “se poi vi delude delusi vi torno indietro i soldi”. Fu un trionfo. Con Costanzo benemerito più di qualunque recensore, più di qualunque critico letterario, fosse pure un De Sanctis o un Benedetto Croce redivivo.
Radice a se stesso, Camilleri, come fatto economico, è stato una specie di Fiat e però senza i contributi del governo. E siccome non di palloccole si parla ma di pagine in serie industriale, capiterà tra qualche tempo – forse vi si adopererà un genio qual è Andrea Parasiliti, storico del libro – di capire il fenomeno Camilleri attraverso le regole dell’economia e del commercio. Un vero e proprio flusso di vendite generate, agli inizi del fenomeno, dal nord-est – dal Veneto, sempre attento all’innesto meridionale – e non certo dalla sua Sicilia. E senza Montalbano a far da esca. “Il Birraio di Preston”, uno dei suoi romanzi storici, passa da 0 a 7.000 copie in una settimana. Un trionfo, un vero e proprio caso per raccontare un mutamento di costume.
Troppu traficu. Camilleri, oltre al fenomeno letterario qual è, si sente cadere addosso il carisma da divo che muove le masse. Se ne accorge il giorno in cui gli viene recapitata la prima traduzione in gaelico, lingua adatta assai agli aedi e ai rapsodi, e subito dopo quella in giapponese, con Camilleri che non riesce a capacitarsi su come guardare lo stampato – se giù o se su rispetto alla pagine, se di lato – non avendo idea di come decifrare gli ideogrammi. Il mondo diventa la sua platea e ha avuto la conferma nella festa di qualche giorno fa, a via Asiago, una cerimonia in forma di assembramento di popolo o di sagra, un’adunata organizzata da Carlo Degli Esposti e non dalla Rai, dove per dirgli buon compleanno s’è presentato tutto il suo pubblico, eleggendolo a nonno più che vate ma ebbe ad accorgersene a maggior ragione quando un giorno, a casa, gli si presentarono davanti due signori, educatissimi, convinti di trascinarlo in un’operazione forse inusuale in ambito letterario ma richiesta assai presso i supermercati: fare il testimonial della Coca-Cola. Dice di no. Disse di no, pare, anche a Barilla e fa tenerezza perciò trovare nei supermercati siciliani la confezioni di peperoni “Montalbano”. Camilleri, in fondo, è come il Cacao Meravigliao. Un marchio, una garanzia. Pura materia dell’immaginario.
Radice a se stesso, Camilleri si fa forte della non-ambizione culturale. Con Edoardo Sanguineti, padre di tre figli maschi, lui che è genitore di tre figlie femmine – Betta, Mariolina e Andreina – giocava a combinare il matrimonio, come a voler comporre le nozze tra la critica e la letteratura. Grazie a Dio, non se ne fece nulla.
Non ha appunto l’ambizione di competere nei feudi di altri, non scimmiotta generi e l’unica eredità che prepara, più che di marketing – propria dei fenomeni da bestseller – è materiale. I mille rivoli del suo inchiostro, infatti, arrivano in altri mondi più che nell’unico libro dell’immobile letteratura. E perciò la radio, la televisione, il cinema e il teatro. Il Camilleri più stupefacente è in quest’ultimo ambito e ne ho ben cognizione per aver goduto da vicino, grazie a Dipasquale, il laboratorio di vere e proprie macchine sceniche quali “La Concessione del Telefono”, “Il Birraio”, “La Tempesta” (da Shakespeare) e poi ancora la “Camilleriade”, un allestimento al Teatro Valle, una co-produzione con lo Stabile di Catania, una festa teatrale a inviti, l’unica occasione per me di stringergli la mano ma ahimè mancata per via della maschera di sala che, incurante del fatto che fossi parte in causa, non volle saperne di farmi entrare.
Radice a se stesso, Camilleri ha la chiave di una Sicilia tutta sua, l’unica Sicilia che si può esportare nel mondo. Rispetto ai rabbiosi lupucuvi, i lupi cupi della memoria, lui è l’unico ad avere elaborato il lutto per la scomparsa della Sicilia che fu. E’ gioioso, infatti, non indugia in malinconie e senza perciò il gallismo del Don Giovanni in Sicilia sfodera un erotismo più panico che onanistico; senza il dogma della retorica mette a carte quarantotto i dogmi del politicamente corretto svelando che sì, il commissario Montalbano, l’uomo sbrigativo e deciso della legge, altri non è che suo padre.
Camilleri – radice a se stesso in letteratura – nella vita ha radice in quel genitore che forse, ancora oggi, fa da contrappeso al tempo corrente dove lui stesso, travolto dalle incombenze di un idolo del sorriso, ha pur dovuto correre incontro a costo di lisciare il pelo dal verso giusto. Un pelo di certo a lui assai intimo – quello della sinistra, quello del partito egemone della cultura – e su cui io, personalmente, in tutti questi anni del suo successo tante gliene ho detto e fatte tante da volerle adesso rendicontare tra le minchiate ingenerose cui s’incappa per il gusto di cicalare contro i dante causa dello Status quo. Uno spiritaccio così, mi dicevo, non poteva abbassarsi ai girotondi e visto che saranno dieci anni che ne fa Novanta, forse quando furono Ottanta, giusto su questo giornale, preparai la voce del Dizionario degli italiani illustri e meschini che a rileggerla, oggi, un po’ mi diverte e un po’ mi fa sentire scemo immaginando che lui si diverta confermando tutta la scemenza dell’esercitazione ideologica in luogo di un riconoscimento.
Un morto in mezzo alla casa, però, ho da levarlo. Un pasticcio tra me e lui di cui vorrei, oggi, risolvere il grumo. Fu nel 1994, o giù di lì, e mi avventurai in un pezzo su Il Giornale dove, a proposito di Porto Empedocle, in una vicenda di politica giusto in questioni paesane, ebbi a raccogliere un racconto su un supposto disgusto antropologico di Camilleri verso Antonio D’Onofrio che, chissà perché, doveva trovarsi nell’agrigentino. Raccolsi il racconto e ci misi il carico trascinando nella polemica la moglie. Fatto è che non c’entrava lei e non c’entrava lui. C’entrava solo la foga del pretesto in siffatto testo: l’eterna guerra civile tra gli italiani di serie A e quelli di serie B. Ebbene, provo oggi a chiedere scusa a lei e scusa a lui.
Alto, impomatato, col capello impomatato lungo da dietro – a volte con foulard e col profumo – Camilleri è un siciliano che non ha mai trascurato la fisicità. E’ il 1985 ed è insegnante presso la Silvio D’Amico, l’autorevole Scuola d’Arte drammatica dove tanto mi sarebbe piaciuto andare a studiare e dove non andai per conclamata incapacità, confermata da una semplice osservazione di mio padre: “Ma dopo lo sai cosa potrai andare a fare? La pubblicità ai formaggini”.
Eccolo, Camilleri alla Silvio D’Amico. È corpulento. Gli piace, per sua fortuna, mangiare e bere. Oggi è arrivato a novant’anni. S’è bevuto un oceano di tutto (non però il vino). E’ spiritoso. Fuma. Fuma assai. Non fa traficu, ed è tutto.