La maggior parte delle persone non stampa più le foto. Quelle che si scattano con lo smartphone o il tablet vengono dirottate automaticamente su Facebook, o condivise via WhatsApp. Solo i più esperti le archiviano su Google Foto o, se addirittura si spingono fino a fotografare con una “vera” macchina fotografica, le trasferiscono in cartelle di immagini sul pc o sul portatile. Un guasto del disco fisso può far perdere tutti i dati, incluse le immagini, ma è ancora più facile, con un click involontario, eliminarne migliaia in un secondo. Passato cancellato. Anzi, deleted. E come disse un saggio informatico, ‘when you delete a file, in most cases for most people, it’s gone’.
Ma come è potuto succedere? Da quando abbiamo trasformato le nostre emozioni, i nostri ricordi, in dati digitali?
Il rischio di perdere la memoria visiva del passato è il prezzo che paghiamo all’estrema facilità con la quale tutti siamo diventati i David LaChapelle dei poveri, riversando su noi stessi e sugli altri scatti in quantità industriale, senza problemi di rullino, di attesa della stampa, e, diciamolo, di costi. Il risultato di tanta euforica leggerezza è che ci siamo alleggeriti anche della tattile sensazione di sfogliare i ricordi, di rivivere i momenti importanti riguardando le immagini cartacee.
Qualcuno ricorda l’ultima volta che ha preso in mano un album per rivedere le foto? Che le ha mostrate ai suoi figli, magari dicendo, come facevano le nostre mamme, ‘questo era il fratello dello zio del cugino di…’? O che, dato il numero di dispositivi posseduti, ha considerato quante foto o video ha immagazzinato in essi, e come potrebbero andare facilmente perduti?
Con una disinvoltura pari alla nostra incoscienza, buttiamo ogni giorno i nostri documenti più cari e importanti, come testi, fotografie, video, ma anche documenti legali, testimonianze, informazioni preziose in un buco nero virtuale. E, paradossalmente, il grido d’allarme è stato lanciato già due anni or sono dal matematico e informatico Vinton Cerf, uno dei padri fondatori di Internet, nonché vicepresidente di Google, preoccupato del fatto che la tecnologia digitale trasformi il ventunesimo secolo in un’epoca buia, incomprensibile agli storici del futuro.
Come Cerf ha spiegato, mano a mano che i sistemi operativi e i software vengono aggiornati, i documenti e le immagini salvate con le vecchie tecnologie diventano sempre più inaccessibili. Nei secoli che verranno, i ricercatori che studieranno la nostra era potrebbero trovarsi di fronte a un deserto digitale paragonabile, per la scarsità di documenti scritti, a un novello Medioevo. E se ritenessimo azzardato, nel nostro misero e miope egoismo, proiettarci in un futuro remoto, basterebbe ricordare come appena negli anni Ottanta fosse normale routine salvare documenti su floppy disk, o musica e film su cassette: e oggi, anche se dischetti e cassette sono in buone condizioni, manca l’equipaggiamento necessario per utilizzarli.
Se il digitale ci ha conquistato fino a renderci dipendenti, dandoci l’idea che il bit sia immortale, siamo su una strada franabile. L’umanità ha disceso il primo gradino verso un mondo digitale che potrebbe essere non decrittabile nel futuro: rischiamo di divenire la ‘forgotten generation’ di un secolo altrettanto dimenticato. Il boss di Google ha usato toni apocalittici e parole forti, come ‘bit rot’, per definire la ‘putrefazione’ dei bit che li rende tecnicamente illeggibili, trasformando il materiale digitale in documenti perduti per sempre quando i programmi per vederli saranno ‘defunct’. Una traduzione del termine non sembra necessaria, mentre lo è la preservazione delle nostre fragili vite digitali. L’ironia della tecnologia attuale risiede proprio nella speranza con la quale digitalizziamo tutto, musica, foto, lettere e altri documenti per assicurare loro la sopravvivenza a lungo termine, mentre, in realtà, a meno che non si prendano precauzioni ulteriori, le versioni digitali potrebbero essere ben peggio conservate degli originali. Cerf ha espressamente dichiarato: ‘Se ci sono foto di cui ti importa davvero, stampale!’
La antiche civiltà ci hanno tramandato memoria di loro perché, persino incise sui muri d’una caverna o tracciate su papiri o tavolette incerate, immagini e segni hanno vinto i millenni giungendo fino a noi: avevano solo bisogno di due occhi che le guardassero, per essere interpretati. Il problema della preservazione del digitale è allo studio, e una soluzione possibile è la creazione della ‘pergamena digitale’: si tratta di fare delle istantanee, nel momento in cui un oggetto viene salvato, di tutti i processi che saranno necessari per riprodurlo, incluso il software e il sistema operativo. L’istantanea potrebbe essere utilizzata in futuro al fine di visualizzare il materiale anche a distanza di secoli.
Si potrebbe obiettare che, con riguardo ai documenti, quelli maggiormente rappresentativi per la collettività vengono via via copiati e adattati per i nuovi media, ma chi opererà la scelta di ‘salvare’ un dato piuttosto che un altro? Sono interrogativi importanti e, come è noto, la maggior preoccupazione degli storici risiede proprio nel valutare con obiettività documenti che solo in apparenza sembrano meno importanti di altri, per studiare un’epoca. Una selezione a monte equivarrebbe, tragicamente, a una storia già scritta.
Tutto questo sul piano tecnologico. E su quello umano?
Miliardi di foto postate e condivise sui social network, dalle quali siamo invasi, perché gli scatti costellano le nostre giornate, e, con il semplice gesto di estrarre il telefonino, abbiamo da qualche anno imparato a consegnare vite intere, quasi momento per momento, a flussi di immagini archiviate in una memoria artificiale, sono, in realtà, destinate all’oblio. Le visualizziamo al meglio, e solo nel breve periodo, nelle ridottissime dimensioni della cornice di uno smartphone, dove i filtri conferiscono un alone di bellezza anche al soggetto più inflazionato. Scattiamo e mostriamo, scattiamo e mostriamo. E ci sentiamo gratificati. L’umanità è ipnotizzata dal proprio ombelico e il selfie è l’atto supremo di consacrazione di questo inestinguibile interesse. «Nessuno più ritrae quello che vede, ma mostra se stesso. Lo schermo del proprio cellulare si fa specchio, e non finestra sul mondo», spiega Roberto Cotroneo (Lo sguardo rovesciato. Come la fotografia sta cambiando le nostre vite, Torino, 2015). Qualsiasi sfondo, da un paesaggio estremo a un capolavoro, dal cortile di casa agli immancabili animalucci domestici, è in secondo piano rispetto al volto fiero di sé di chi clicca appagato. «Il selfie è frutto di un narcisismo gigantesco che ha incontrato la tecnologia per espandersi all’infinito», sancisce lapidariamente Cotroneo. «Il gesto di fotografare una volta era una scelta, una volontà, era un modo di sedere al tavolo delle identità portando con sé un oggetto perfetto per capire: la macchina, con tutta la sua capacità di scrutare». E il soggetto fotografato ne era consapevole, perché «la fotografia non è solo memoria e ricordo. È consapevolezza, ed è capacità di guardare e di guardarsi. Ognuno deve sapere quale fotografia si porterebbe su un’isola deserta e soprattutto perché». Basterebbe un minimo di introspezione per fare questo gioco interessante e dai risultati imprevedibili.
Seppur non si riscoprano le proprie foto per mesi, o anni, non c’è niente che sostituisca il guardare i ricordi stampati su carta fotografica. L’immagine sorridente delle persone scomparse, quella del giorno più importante, con la data scritta a penna sul rovescio, emanano una serie di sollecitazioni sensoriali che solo la stampa può restituirci. Ma ricordate l’emozione di quando, dopo un viaggio, si passava dal fotografo a ritirare il pacchetto di fotografie per vedere quante ‘ne erano venute’? E sapete che, secondo recenti statistiche, i bambini, sebbene iperfotografati, spesso non hanno foto stampate, o non sanno di averle perché nessuno le sfoglia con loro? Eppure, ci sono diversi buoni motivi per stampare una foto: perché osservare le fotografie su un monitor o su carta non è la stessa cosa; perché può accadere che alcune fotografie siano piccole opere d’arte; o perché immortalano eventi che si vogliono avere sempre presenti sia pure in una cornice; infine, per toccarle. Proprio come il lettore appassionato non potrà sostituire mai la sensazione di sfogliare, annusare, annotare un libro con la lettura digitale. Il valore assoluto della fotografia stampata in un’era in cui tutto è effimero sottende al valore della propria storia individuale e famigliare e alla possibilità di un’intima condivisione della stessa con le persone che amiamo, di valenza opposta alla ‘condivisione’ virtuale della quale a pochi importa davvero.
Altrimenti, il narcisismo di massa divorerà se stesso. La rivoluzione del web ci mostra il mondo, e mostra noi stessi al mondo, in modo spesso sconsiderato: selezionare le priorità, decidere cosa salvare, diventa fondamentale nella estrema confusione dei nuovi paradigmi contemporanei. La magia delle fotografie risiede della possibilità di una perpetua e tramandabile visione di ricordi personali, incontri importanti, suggestioni emotive; permette, ogni volta che lo desideriamo, di raccontarci a noi stessi in una prospettiva sempre diversa – come diverse sono le età della ragione e dei sentimenti -. La scelta di stampare su carta un’immagine speciale potrebbe essere davvero rivoluzionaria. Potremmo compiere un gesto singolo di rivolta, e quindi di autotutela, che sia uno di mille segnali illuminanti e inattesi nel panorama del cambiamento tecnologico degli ultimi decenni, divenuto inevitabilmente un cambiamento sociale tanto vorticoso da trasformare nel profondo il nostro sguardo sul mondo.