Verso sera, con la brutale schiettezza che è la nostra felice dannazione, abbiamo azzardato un titolo di cronaca sulla morte barbara di Ludovico Corrao. Tra le piste, si segue la traccia passionale. Non è l’unica, non è questa la verità accertata al momento, è appena un’ipotesi di cui dare conto, come altre. Staremo a vedere. Ci siamo limitati a fotografare una zona d’ombra, in omaggio alla concretezza della logica e delle concatenazioni necessarie. Abbiamo passato una giornata al telefono con amici, con colleghi. E l’idea del delitto a sfondo amoroso era ovunque la più condivisa, a prescindere dalla sua effettiva consistenza. Eppure, i giornali, per la maggior parte, non hanno titolato sul punto, accennando di sghimbescio alla vittima, “personaggio eccentrico che vestiva in modo colorato e vistoso”. Non esprimere per alludere. Lo hanno nascosto, affidando l’indicibile ai sussurri e alle maldicenze sottovoce: il modo peggiore di raccontare, tra strizzatine di palpebre e toccatine di gomito. Lo hanno sotterrato sotto il tappeto di un morboso pudore. Lo ripetiamo: chiameremo la verità col suo nome, solo quando sarà accertata. Noi ci comportiamo così, descrivendo le cose per ciò che sono. Una pista è una pista, niente di più, nulla di meno.
Ma allora perché tanta paura? Perché è così impossibile scrivere alla luce del sole il presunto segreto lampante che viene rivelato, nel momento in cui si nasconde, dalla cattiva coscienza di chi ne è imbarazzato, cioè il retropensiero generale e occulto che respirasse un legame di qualche tipo tra Ludovico Corrao e il suo assassino? E se fosse davvero l’origine e l’omega della storia? Non lo sappiamo. Non lo escludiamo. Tuttavia sui social network qualcuno già scrive di “fine pasoliniana”, altri si riferiscono a una figura alternativa “fino all’ultimo”. Le confidenze minano ai fianchi la reputazione dell’integrità, non l’onesta investigazione narrata al lettore. E siamo proprio nella situazione degli intrecci fantasiosi e pruriginosi, nella letteratura del buco della serratura, in cui una credenza diffusa preme e stravolge i fatti perché si ingrandisce, con loro dispetto, per il silenzio magnaccia e per una concezione bigotta della memoria. Siamo al “per me è innocente…” di Volontè, con la sua smorfia lubrica.
Che brutta faccenda la morte quando viene usata allo scopo di innalzare altari posticci, nemici dell’intimo regno che ciascuno condivide con se stesso, in piena libertà. Che becero oltranzismo il nostro, quando vogliamo che i trapassati profumino di santità celeste, quando oltraggiamo il loro essere stati uomini nel bene e nel male, quando spezziamo la carne e l’anima perché adoriamo i monumenti di marmo e i codicilli del buoncostume. Che squallore nello spioncino con cui sezioniamo le biografie, dando l’impressione di esserci capitati per caso.
Quale che sia il movente del tragico epilogo di Gibellina, non cambia niente, o muta molto poco. Non si alterano dolore e pietà. Ludovico Corrao era un poeta, un creatore dal nulla che ha migliorato il suo tempo e la sua terra. Nella buona misura dei suoi occhi – che sempre cozza con la fatica delle gambe e dei propositi – risiedeva l’unica santità che ci è davvero concessa: la fede nel bello e nel giusto. Per il resto siamo tutti creature fragili. E nostro cuore è una zattera al vento.
Ps. Non abbiamo mai osato una ricostruzione della vicenda, né un giudizio della persona nella sua inviolabile identità. Ma forse era utile scavare una trincea luminosa intorno alla morbosità di qualcuno. L’unico peccato mortale che nessuno confessa.