In tribunale volano "timpulate" - Live Sicilia

In tribunale volano “timpulate”

La sentenza movimentata
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Il delirio dopo la sentenza. S.P., è stato condannato a 3 anni e mezzo per maltrattamenti in famiglia. Il giudice monocratico, Pasqua Seminara, legge  il dispositivo e in aula regna il silenzio. Poi scatta il putiferio. Urla lancinanti della madre dell’imputato con una ventina di persone sospese fra il tentativo di calmarla e la rabbia che scaturisce dalla sua sofferenza. Un’altra donna, vittima delle violenze, piange a dirotto. Gli amici e parenti di lui che la additano, scandendo improperi indicibili, promettono vendetta. Eppure S.P., in aula, ha ammesso di aver picchiato la giovane moglie: “Non ogni giorno, che so, una volta la settimana…”.

Il servizio d’ordine del tribunale cerca di far calmare le acque. E’ come fermare un treno col palmo della mano. Il gruppo, compatto ed eterogeneo – ci sono adulti, giovani, bambini – avanza verso la vittima, continuando in una valanga di improperi che si trasformano in minacce. Una ragazza, in particolare, punta dritto verso la vittima che le va incontro. Un carabiniere fa interposizione e finisce per beccarsi un colpo d’ombrello destinato alla donna. Siamo alla rissa. E, attorno al gruppo di persone, c’è anche un bambino, che per tutta la mattina ha giocato da solo nel corridoio del tribunale con una pallina improvvisata. Guarda spaesato, non capisce.

Ma non è finita qui. C’è un personaggio in particolare che non ha nascosto il suo nervosismo per tutto l’arco della seduta. Sbuffa a intervalli regolari di pochi secondi e muove la gamba come una sincope. Gliel’ha giurate a quella ragazza, anche di fronte ai carabinieri passando dagli improperi alle minacce palesi. “E m’arristati” dice all’uomo dell’Arma, promettendo percosse. L’uomo comincia a passeggiare su e giù per il piano terra del tribunale, dove la moglie maltrattata necessariamente sarebbe dovuta passare. Un fare molto sospetto che ha indotto i carabinieri a farlo uscire fuori dove si è dileguato. Con questo drammatico epilogo si è concluso il processo ai danni di S.P., che il suo gruppo di parenti e amici ha disturbato con ogni mezzo possibile. La pazienza del giudice è stata più volte messa alla prova senza che perdesse mai il controllo della situazione.

Il processo nasce da un ricovero in ospedale, del 7 giugno 2011, di una ragazza a seguio delle percosse subite dal marito, S.P. Si parla di continue di minacce di morte, schiaffi, pugni, calci e, infine, anche il colpo di bastone che avrebbe mandato la giovane moglie in ospedale. Il punto di non ritorno, perché allora è intervenuto anche il tribunale dei minorenni che ha allontanato i figli dal padre. Lui sale sul banco dei testimoni e  risponde alle domande del pm. Confessa la sua ossessione, “che ero geloso è vero, c’erano pugni e calci ma non sempre giornalieri… non è mai finita in ospedale”. Il giudice fa presente che, magari, la donna non è finita in ospedale prima perché non ci è voluta andare, perché aveva paura, tanto che secondo la sua denuncia anche quando quel 7 giugno 2011 è stata ricoverata, il marito si sarebbe presentato per darle il resto. Ma lui tenta una lieve difesa, “non ho mai usato un bastone e non è che gli alzo le mani in ospedale”.

S.P. ammette le sue colpe ed esclude che lo stesso trattamento sia stato riservato ai figli. E se il tribunale dei minorenni ha deciso di toglierglieli è “per quello che ha detto lei” dice rivolto sempre alla moglie. Il giudice gli chiede se faccia uso di droga. Lui conferma: “Hashish e cocaina”. Nonostante non fosse proprio un benestante, “prima la famiglia, poi la coca”.

S.P. racconta come anche lui abbia preso qualche schiaffo dalla moglie, come anche lei provocava e chiude: “Ci pizzicavamo a vicenda”. Il giudice chiede della sua ossessione per la gelosia e sembra colpire un nervo scoperto. “Geloso? Avrò i miei motivi… un pensiero mio”. “Una sua forma di mania?” chiede il giudice. “Io neanche ci voglio pensare – dice infastidito – non ci voglio rispondere”. L’imputato torna nel suo posto circondato da guardie carcerarie. Ha un atteggiamento spavaldo, sorride ironico ma quando il giudice si ritira per deliberare china il capo e lo poggia sulle mani conserte, costrette in questa posizione dalle manette. Alla fine il giudice lo condanna a 3 anni e mezzo, più di quanto la stessa accusa ha chiesto (due anni), con l’interdizione di 5 anni dai pubblici uffici. Poi scoppia il putiferio, dove il corridoio del tribunale diventa terreno di scontro e di minacce.


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