“Il padre non te lo scegli e anche se fai la tua vita, come fai a liberarti da questo fantasma?”. Pina Maisano Grassi, la moglie di Libero ucciso dalla mafia per il suo coraggio d’imprenditore, al telefono risponde con la solita semplicità.
I fratelli Angelo e Paolo Provenzano hanno acconsentito a rilasciare un’intervista in cui parlano del padre Bernardo, della “mafia” e della “mafiosità”, si interrogano sul ruolo dello Stato e su quello dei collaboratori di giustizia. La solidarietà trasversale giunge loro da una vedova “coraggio”, che non ha mai smesso di lottare per quegli ideali che sono costati la vita a suo marito. “Quello che ognuno di loro vuole dire – legge fra le righe Pina Maisano – è ‘io sono io’ e non sono mio padre, per il resto non dicono niente”. Mostrano intelligenza, secondo la Maisano, i figli di Provenzano, che sviano le domande dirette, “si vede che hanno studiato, hanno fatto un’altra vita, sono cosa diversa, ad esempio dai figli di Totò Riina”. Abbiamo sentito i pareri di altri familiari di vittime di mafia.
Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe, ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1992, ha un’idea diversa da quella espressa da Pina Maisano Grassi. “E’ chiaro – dice Sonia Alfano – che lo Stato ha avuto un ruolo nella lunga latitanza del padre, perché Riina era fastidioso, e quindi da arrestare, ma Provenzano era quasi un uomo di collegamento”. Insomma “qualcuno glielo ha consentito” e la Alfano comincia a ricordare le vicende che hanno visto già rinviato a giudizio il colonnello Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina, ma anche il processo in corso allo stesso Mori per la mancata cattura di Provenzano del 1995, quando il confidente Ilardo aveva messo gli inquirenti sulla giusta pista. “Ifigli dei mafiosi ora sono più eruditi e si vede”, dice Sonia Alfano. Ma c’è quel passaggio dell’intervista, quel “i pentiti sono una della più grandi sconfitte dello Stato”, riportato da tre quotidiani nazionali che pubblicano il colloquio con i figli di Provenzano. “Può voler dire che se lo Stato deve ‘comprare’ persone per avere informazioni allora ha fallito, oppure – ed è l’ipotesi più azzardata – considera la mafia al pari dello Stato”.
Interpretazione sulle quali Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia di Riina e Provenzano, non ha affatto dubbi. “Un ruolo fondamentale (quello dei pentiti, ndr) che hanno consentito di evitare altri spargimenti di sangue, uno strumento su cui Giovanni e Paolo Borsellino credevano tanto. Certo – continua la signora Falcone – bisogna saperli usare bene, con tutti i riscontri del caso”. Maria Falcone, da anni ormai, si dedica alla diffusione della cultura della legalità nelle scuole, e concorda con Angelo Provenzano, per quel passo dell’intervista in cui il figlio del boss segna le differenze fra la mafia, intesa come struttura criminale, e la mafiosità, l’atteggiamento culturale. “La mafia – spiega la Falcone – si avvantaggia di certi atteggiamenti che, se non sono complici, sono quantomeno di indifferenza. E’ quello che stiamo combattendo e che sta cominciando a dare i suoi frutti con le nuove generazioni”. Ma anche sull’ombra gettata sul ruolo dello Stato, Maria Falcone ha un’idea chiara: “La colpa non è dello Stato ma di alcuni uomini che hanno ricoperto alcune cariche e hanno sbagliato. Lo Stato è altro, è la democrazia, è quello in cui credevano Giovanni e Paolo”.
Palermo, 1 dicembre 2008