Se ne stanno accovacciati nelle ombrose stanze della Regione siciliana e, come se nulla fosse, continuano ad amministrare potere e consulenze, miliardi e clientele. Non mollano né il doppio petto né l’auto blu. Anzi. Impettiti e arroganti, disegnano strategie per il futuro, ovviamente “nel supremo interesse della Sicilia”, e come se niente fosse, parlano e straparlano di “alleanze omogenee”, di “programmi condivisi”, di “rilancio dell’economia” e di tutte le giaculatorie alle quali il gran teatro della finzione ci ha ormai abituati. In un solo caso questi anguilloni del cerchio magico, mostrano il fiato corto. Ed è quando sono costretti a spiegare per quale ragione restano ancora al fianco di un presidente della Regione la cui nave è miseramente naufragata nella palude limacciosa di un’inchiesta giudiziaria per mafia. A quel punto i loro discorsi si fanno impacciati e miseramente causidici, il loro linguaggio si fa cespuglioso e il ragionamento finisce per cedere a quella tecnica tutta siciliana, tutta sciasciana, di “afferrare un concetto per la coda e restare con la sola coda in mano”.
Fino a qualche anno fa questi anguilloni giravano per piazze e palazzi, travestiti da chierici vaganti, a predicare le regole del buongoverno; ci insegnavano i sacri principi della legalità e con l’abitino dei catechisti pretendevano di addestrarci al rito della moralità e della militanza antimafia. Tutto cancellato. Perché da quando il loro caro leader è costretto a salire e scendere le scale dei tribunali per difendersi dalle accuse più infamanti, i chierici del cerchio magico non sanno più che pesci pigliare e, con sprezzo del pericolo e della decenza, impapocchiano le teorie più azzardate, le giustificazioni più inverosimili, le motivazioni più impudiche. Prendete Andrea Vecchio, l’eroe antiracket di Catania. Fino a pochi mesi fa predicava, eccome, la necessità di tenere lontano un miglio chiunque, a cominciare dai suoi colleghi imprenditori, accettasse supinamente la legge del pizzo. Ma appena Lombardo lo ha chiamato a far parte del suo quinto governo, Vecchio è passato immediatamente dall’antimafia dei principi all’antimafia dell’accomodo: “Lombardo mafioso? Cavoli suoi”, ha risposto a un fastidioso giornalista, liquidando così una questione che avrebbe dovuto apparirgli grande come una casa.
Oppure prendete Gaetano Armao, il navigatissimo assessore al Bilancio che alle amministrative di Palermo non solo ha presentato una propria lista di candidati ma ha anche avuto l’ardire – lui, che pure è stato pizzicato dalla procura di Palermo per una vicenda che lo riguarda professionalmente – di farci una lezioncina pubblica sul codice etico. Gli elettori che gli hanno prestato fede non sono stati per la verità moltissimi. E se qualcuno avrà sperato che Armao desse prova di una singolare coincidenza tra parole e opere sarà rimasto certamente deluso. Perché l’onorevole assessore non ha avvertito alcun bisogno di staccare la sua immagine (ah, quanto etica) dal Governatore inquisito per mafia. Ed è rimasto lì, imbullonato alla sedia, nell’insaziabile attesa di un incarico che gli garantisca per altri quattro o cinque anni di scorazzare nel sottobosco politico.
Oppure prendete Massimo Russo, il principe dei chierici predicatori. Fino a qualche anno fa, quando ancora indossava la toga di magistrato antimafia, salmodiava con i toni più intransigenti, convinto com’era che bastasse un semplice avviso di garanzia per gettare un uomo politico nella gogna e costringerlo alle dimissioni. Ora, dopo quattro anni di fitta confidenza con il potere e con i metodi di Lombardo, il savonarola di Mazara del Vallo si è convertito al garantismo più sfacciato. Intervistato tra i giardini di Villa Igea nel giorno in cui il Grande Inquisito lo incoronava come suo successore, l’immacolatissimo Russo si è esibito in una piroetta degna del teatro Bolscioi e ha sostenuto senza rossore che per costringere un amministratore della cosa pubblica ad abbandonare la carica è necessaria almeno la motivazione di una sentenza. Poi, tanto per strizzare un’occhiatina alla sua amata società civile e dare una sciacquatina alla propria coscienza, ha ammesso di provare comunque un po’ di imbarazzo. Un imbarazzo piccolo piccolo, va da sé. Robetta che si può anche mandar giù con un cucchiaio di Citrosodina sciolto in acqua o, nel peggiore dei casi, con un semplice clisterino.
Povera Sicilia, verrebbe da dire. Se è questa la classe politica che ci troveremo di fronte da qui a qualche mese, se è questo il nuovo che avanza, se è questo il rinnovamento che tanto abbiamo invocato, allora affidiamoci anche noi a un gesto estremo e spregiudicato. Io, nel mio piccolo, l’ho già fatto. L’altra notte, spinto da un’insonnia ghibellina, mi sono affacciato al balcone e ho lanciato, nello scirocco che mi artigliava per la gola, un grido liberatorio: “Viva Lombardo”. Sì, proprio lui: il governatore ribaltonista, il più rapace predatore della savana politica, l’orco che ha fatto a pezzi l’intero galateo delle alleanze, il gattopardo venuto da Grammichele per sbranare e dissanguare tutti partiti dal Pdl al Pd all’Udc, il presidente che ha trasformato palazzo d’Orleans in una immensa giostra dove girano, quasi esclusivamente, eletti e trombati dell’Mpa. Viva Lombardo. Sì, proprio don Raffaele, il mio nemico più caro, il moschettiere delle querele, il plurinquisito per mafia. Almeno lui, nell’attraversare i canneti sporchi della politica, non si è mai travestito. Né da chierico né da predicatore. Onore al merito.