I gesti spezzati, gli sguardi allucinati, le dita febbrili, la postura stralunata accarezzano, a latitudini diverse, lo stesso passo d’addio. L’ultima crociata, la caduta dei Lombardi, il dissolvimento contemporaneo del regno di Raffele e Umberto. Una beffa. Un segno. Una sciagurata (per loro) similitudine, nel caso del Lombardo drammatizzata secondo i riti del teatrino padano, nel caso di Lombardo annegata nella bile acidissima di un Venerdì Santo. E’ il rumore del potere che si stacca – a poco a poco, o con nettezza di taglio – da un uomo, come la carne dall’osso. Nella fase terminale e crudele di un corpo c’è la metafora di quello che sta accadendo, in un frangente meno tremendo ma più storico. La celebrazione di un passaggio che non ammetterà repliche. Che non conoscerà dolcezze da commiato, né applausi, né marce di banda, se non, appena appena, il coro sussurrato e dolente di amici e parenti.
Raffaele e Umberto se ne vanno verso un tunnel di ombre e magari rimpianti. Tramontano – e scegliete voi la melodia che possa vibrare, adatta per il momento – sotto la spinta di vicende differenti, nell’identico naufragio. E’ la morale della favola che li accomuna: hanno fallito. Come i cannoli di Cuffaro, così sono le indagini, i sussurri, le “maldicenze”, i carabinieri e le perquisizioni a corredo del terzo atto. Non hanno provocato lo strappo. Certificano qualcosa che è già avvenuto nel cuore e nella consapevolezza della gente. E non sarà il variabile peso temporale, l’ipotetica clemenza di un “Mi dimetterò” a colmare il vuoto che si apre.
In che mano del poker Raffaele Lombardo e Umberto Bossi hanno smarrito le carte vincenti? Non nel presupposto para-ideologico che, con profili contigui, li ha accomunati. La Sicilia ai siciliani della dottrina Lombardo e il “Roma ladrona” negli slogan del Lombardo hanno preso le mosse da due disegni temerari che riflettevano, ognuno, il rovescio dell’altro. Più sapiente, più tatticamente accorta la strategia del governatore della Trinacria. La rivoluzione come un avvelenamento lieve, nel bicchiere d’acqua e zucchero, sollevata come una leva: il paradosso di un misirizzi abituato a restare in piedi con qualunque vento. La calcolata eresia del vaso di coccio che trae la sua forza dall’inopinata e litigiosa debolezza dei vasi di ferro. L’abiura e il riposizionamento programmato. Tecniche di sopravvivenza.
Per l’Umberto il crollo è forse più chiassoso. Il sistema di camere stagne del Presidente alle prese con la giustizia prevede, per sicula cautela, il congegno dell’alternanza: una fase sfortunata da subire col minimo danno, per tentare la via della salvezza, nello scatto successivo. Il Senatùr, invece, non ha organizzato la ritirata, con la benedizione di un’ampolla piena di acqua del dio Po. Ha puntato il suo credo, la sua patologia, la sua rozzezza, il suo odio, il suo amore, i suoi fonemi sconnessi, prima e dopo il male, il coraggio di un paziente devastato, la sua complessiva indigeribilità, tutto sul tavolo. Tutto. Ci ha messo se stesso e la Padania scolpita nell’anima e nello stomaco. Non era soltanto un mero espediente d’assalto, ma anche fede e (sub) cultura. Non era un gioco. Era proprio la vita.
Non muoiono le (poche) ragioni e i torti, la lucidita e le follie che hanno condotto due personaggi, sideralmente lontani per carattere, affratellati alla ribalta. Si congedano gli attori che hanno letto il copione. Ora non resta che vegliare la clessidra. Raffaele e Umberto si dileguano perché non sono più credibili, perché sono percepiti non più all’altezza di stratagemmi e mitologia. E’ la rivincita per contrappasso di una furbizia che dovrà trovare interpreti altrimenti furbi. La scalciata di un cavallo che continuerà a correre, scosso e imbizzarrito, dopo essersi liberato dei cavalieri fantasma di un’epoca che sfuma.
Negli ultimi bagliori, l’orchestrina sta suonando il tango di due figure che hanno tradito capacità, sogni, misfatti e rendiconti. Si dicevano nuovi, nel bene o nel male. Hanno dimostrato di essere il vecchio che si traveste. E torna.
Nessuno stratagemma fermerà l’orologio. Bossi che fa per scagliarsi contro i giornalisti e viene fermato dalla sua stanchezza, prima che dalla scorta, è ormai al lancio della stampella. Lombardo sa di cavalli. Ha capito la gara. I suoi occhi quasi indecifrabili raccontano da qualche mese l’epilogo annunciato. Sono i lumi fiochi del potente sbalzato di sella, in balìa di compari e nemici. Ridotto ad imprese da gappista o da carbonaro, riparato da una quinta, da una maschera, da un’ipocrisia. Non è il declino della forza la cartina di tornasole di un’abdicazione, il peccato che non si perdona al re, amato, vilipeso, ma comunque sovrano, finché era sul trono? La frana si sente a orecchio nudo, dalle Alpi a Grammichele. E lo schianto si rivelerà più atroce nella misura in cui sarà accompagnato dalla speranza di durare. Dalla voglia di cavalcare ancora un po’.