La città come metafora: i cento anni di Italo Calvino - Live Sicilia

La città come metafora: i cento anni di Italo Calvino

“Le città prendono forma dal deserto cui si oppongono”
LO STRETTO IMMAGINARIO
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CATANIA – “Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. Di una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”  Quando nel 1972, Italo Calvino immagina il Gran Khan che ascolta, dalla voce di un Marco Polo visionario, i resoconti di un viaggio tra le città, la storia è in forte accelerazione. La sua crescita materiale avviene senza timori nei confronti di un corretto o meno utilizzo delle risorse naturali. L’ecologia come scienza già esisteva, ma l’ambientalismo, inteso come attivismo ecologico e politico, era quasi inesistente.

La fine della crescita

Nel 1972 eravamo però al tramonto di quell’ubriacatura da crescita, perché appena un anno dopo, la Crisi Petrolifera investirà le città e le comunità dell’Occidente Industrializzato, imponendo misure di convivenza cui non si era più abituati. Interruzione della distribuzione dell’energia, uso della macchina regolato da norme specifiche e il divieto assoluto del loro utilizzo la domenica, furono un brusco risveglio dai sogni progressivi.

Il libro

Le Città Invisibili di Calvino, anche se in questi mesi a venire in molti proveranno a dimostrare il contrario, non contengono una consapevolezza ecologica o ambientalista, per come oggi la intendiamo. Da un capitolo all’altro, si rintraccia il senso di un percorso, di un viaggio, che è quello che si svolge all’interno del rapporto tra i luoghi e i loro abitanti, tra i desideri e le angosce che ci portano a vivere la città. Nove capitoli. Ognuno di essi si apre e si chiude con un dialogo fra Marco Polo e l’Imperatore che interroga l’esploratore sulle città del suo impero. Ciascun capitolo contiene cinque descrizioni delle città visitate da Marco Polo, tranne il primo e l’ultimo capitolo in cui ve ne sono dieci. In tutto cinquantacinque città, ciascuna con un nome di donna, e raggruppate in undici sezioni.

La città come metafora

Perché Calvino si avventura dentro la questione urbana? Se si ripercorrono i brevi e veloci tre decenni dalla fine della guerra, si vedrà che tutte le discipline sociali ma soprattutto quell’architettonica e urbanistica, s’interrogano e affrontano la questione urbana. Calvino conosce ed è aggiornato sul dibattito in corso su questa questione, e da italiano avrà fatto i sui conti con la tesi di Francesco Rosi contenuto nel suo film le Mani sulla Città, in cui partendo dalla speculazione edilizia a Napoli, egli fissa un principio delle società occidentali quando fa dire a uno dei due protagonisti (l’imprenditore e speculatore) che “Il denaro non è un’automobile, che la tieni ferma in un garage: è come un cavallo, deve mangiare tutti i giorni”.

Un’affermazione che descrive non il Capitalismo Classico, ma quello che stava già diventando, e che dopo tanti decenni chiamiamo in maniera semplicistica Capitalismo Finanziario, come se esso fosse solo peggio di quello Classico e non esattamente il suo destino segnato. Calvino sa bene, che l’altro protagonista del film, ancor più del primo, è la trasposizione di un personaggio realmente esistito, che a Napoli s’impegnò per evidenziare l’importanza della città nei destini di una comunità.

Questo personaggio era Luigi Cosenza, ingegnere, di famiglia importante, che negli stessi anni in cui Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaromonte animano le attività del Partito Comunista in città, porta dentro l’Università (dove era docente) e nelle Piazze questi problemi. Calvino conosce tutto questo e il suo interesse per la città, per le questioni urbane, difficilmente nasce in luoghi del dibattito diversi. Le Città Invisibili sono scritte in questo clima, e le intenzioni di Calvino non possono essere avulse da questo genere di dibattito sulla città.

Città e natura

“Le città prendono forma dal deserto cui si oppongono”. Questa frase, contenuta nella descrizione della città di Despina, potrebbe essere una chiave importante sulle riflessioni che si addensano lungo lo scritto. Una categorica affermazione, in cui in maniera chiara si dice che la città nasce in opposizione alla natura, di cui il deserto è solo un elemento preso a pretesto dal punto di vista drammaturgico. La frase, se volessimo renderla chiara, sarebbe la seguente: le città prendono forma dalla natura cui si oppongono.

Chi scrive, usa le parole per quelle che sono e significano, e il termine opposizione va preso alla lettera, sul serio, e verificato con altre argomentazioni precedenti. Quando a Pico della Mirandola fu vietata la pubblicazione delle sue “Cento Tesi”, egli si ritirò a Fiesole dove scrisse un’ipotetica introduzione alle Tesi, dal titolo la “Dignità dell’Uomo”, in cui fa parlare Dio al suo posto.

“La Natura determinata degli altri, è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai non costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto”. 

Qualche secolo dopo fu Le Corbusier, però, a chiarire ancora meglio la questione, quando provò a descrivere, cosa realmente fu la Rivoluzione Urbana, svoltasi intorno a tre millenni prima della nascita di Cristo, contemporaneamente, in diversi punti del Mediterraneo, ma non solo, “L’uomo primitivo ha fermato il carro, e decide che qui sarà il suo posto. Sceglie una radura, abbatte gli alberi troppo vicini, spiana il terreno all’intorno; apre il cammino che lo collegherà al fiume o a quelli della tribù appena lasciata. (…) Egli ha dato un ordine; poiché attorno a lui la foresta è un intrico disordinato di liane, rovi, che lo intralciano e limitano i suoi sforzi. Ha messo ordine misurando. (…) In tutto ciò non c’è l’uomo primitivo; ci sono mezzi primitivi. L’idea è costante, in potenza dall’inizio.”   

Questi sono solo due esempi, di una lunga serie d’interpretazioni, idee, che provano a definire la città come un prodotto della Cultura Materiale che per certi versi realizza un ambiente in frizione con la natura e non piegata alle sue leggi e alle sue esigenze. Ovviamente va precisato che nessuno in passato, con la testa sulle spalle, compreso Italo Calvino, ha mai avuto dubbi sul fatto che la demografia e gli stili di vita influenzano molto la natura, il suo patrimonio di risorse e il clima. Questa consapevolezza non ha modificato un’evidenza, però, su cui la scienza non può fare nulla, se non confondere le acque: l’umanità è tale perché naturale non è, o almeno non sembra.

Abitare il Mondo

Buona parte degli stili di vita che viviamo in maniera determinata non sarebbero possibili o ammissibili, all’interno delle condizioni di natura. Aver realizzato, preventivamente, un ambiente diverso – antipolare- ha permesso di realizzare qualche cosa di non previsto in natura. Vincere il caso, l’inevitabile, il destino: questo è il compito di una civiltà che si solleva rinunciando a ciò che potrebbe essere un Paradiso, dentro il quale, però, non v’è speranza che avvenga nulla di diverso da ciò che esso permette e contempla. Una civiltà, che nel suo sollevarsi prima di tutto realizza un ambiente innaturale dove poter operare questa rivoluzione fondata sul costruire. Costruire è la volontà di mettere in forma un tridimensionale uso innaturale del tempo e dello spazio fisico. L’atto del costruire, quindi, potrebbe essere la risposta concreta, data dall’umanità, finalizzata alla realizzazione di un ambiente dove voler vivere Abitando il Mondo e non sopravvivere Approfittando del Mondo. 

Austerità

Le Città Invisibili non sono un manifesto urbanistico o ecologista come in tanti proveranno a sostenere quest’anno, tirandolo da una parte o dall’altra. Il volume prova a dare conto delle contraddizioni che la città del novecento contiene in sé. E ciò avviene molto prima che Berlinguer disegni una sintesi efficace della questione, quando, sulle ceneri di un’austerità subita per motivi legati a vicende internazionali, ne immagina una volontaria, misurata, influente, governata, progettata, che rappresenti una via di uscita politica dalle opposte ideologie legate alla crescita (economica, politica, demografica) che la sinistra e la destra politica sembravano ormai aver assunto come dogma condiviso, distinguendosi soltanto sulla maniera con cui distribuire i risultati di questa crescita. 

Berlinguer capisce che, esattamente come un essere umano, anche la demografia sociale ha dei limiti. La vita di un essere umano li ha in rapporto al proprio corpo, la demografia in rapporto al pianeta che viviamo. In ambedue i casi, dopo la fase della crescita, dovrebbe esserci un’altra cosa, che crescita non è, nemmeno quando è evocata come sostenibile, che nei fatti sembra un ossimoro o una forma di esorcismo. Tute le parti invisibili della città, che Calvino racconta, se riarticolate e attualizzate, forse potrebbero essere le infrastrutture sociali e culturali più attinenti per rimisurare uno stile di vita prima ancora, o invece, di individuare nuovi modi per produrre l’energia che serve a sostenerla, perché non si corregge un’operazione modificando il risultato. 


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