La città degli invisibili - Live Sicilia

La città degli invisibili

Barboni e altre storie
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2 min di lettura

Ne ho conosciuti di uomini invisibili. Il primo si chiamava Cristiano. Non era di Palermo. Lavorava come odontotecnico prima del trauma. C’è sempre una frattura tra la vita di prima e quella dopo. Può essere la miseria che piomba improvvisa a separarti da te stesso. Può essere la follia. Può essere il dolore. Arriva una mano ignota e con una matita rossa traccia una linea, un confine invalicabile. Ormai sei di qua e non tornerai di là. Potrai solo voltarti indietro e osservare ciò che non sarai mai più. E’ la condanna che alimenta il dispiacere, il freddo, l’alcolismo. Ti assottigli per scomparire alla vista degli altri. E ci riesci benissimo. Si accorgono di te quando muori. E piangono con le lacrime di tutti i coccodrilli del mondo.

Cristiano beveva molto, stava con una clochard sporca e misera. Lei aveva occhi azzurri da bambola. Trovarono alloggio presso casa di un universitario che lesse di loro sul giornale e si impietosì. Durò poco. La famiglia del fuorisede intervenne, sbarrando porta e finestre con estremo senso pratico. Vicè Vogghiufumare forse c’è ancora. Ti chiede una sigaretta, dorme dalle parti degli ospedali, perché si sente al sicuro. Faceva il sarto. La sua fisionomia ricorda l’antico mestiere. Ha le pupille come capocchie di spillo. Vicè e basta, invece, dormiva sotto gli archi delle Poste di via Roma. Aveva i capelli raccolti in una fetida crocchia. Temeva i medici. Accettò una sola volta di salire su un’ambulanza, perché si sentiva davvero male. Appoggiò il capo sulla lettiga pulita, odorosa di medicinale. Chiuse gli occhi e morì. Un altro spirò di notte. Ebbe appena il tempo di scrivere la più bella poesia che io ricordi sui clochard: “Barbone-cartone, la speranza e la carità sono la tua coperta”. Un altro ancora lo trovai nella mia macchina, dopo un turno di nera. Si era addormentato sul sedile del passeggero. Disse, per scusarsi: “Amico mio, ho visto una vecchia carcassa e mi sono infilato”. Io quella macchina ce l’ho tuttora e ne sono stranamente orgoglioso.

Non mi va di chiamare “fratelli” gli ultimi che ho incontrato, di cui mi è capitato di raccontare le storie. Non sono così buono. Non ho l’anima immensa e gli occhi da santo di Biagio Conte. So che ho voluto bene a molti di loro. Che avrei voluto una casa tutta mia per ospitarli. E pure adesso mi capità di sognare Vicè che chiede la sigaretta, al gelo delle notti invernali. Li ho sempre amati i barboni, gli uomini invisibili di Palermo, perché gli somiglio, come altri che forse non lo sanno. Sento di appartenere alla loro razza di cuori sperduti, quando mi guardo allo specchio e non vedo niente.


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