Li chiamiamo eroi. Perché, nelle battaglie più dure, c’è sempre bisogno di qualcuno che salvi il prossimo, col massimo dell’abnegazione. Ma davvero comprendiamo il loro cammino? Davvero siamo vicini al personale sanitario – medici, infermieri, operatori – che combatte in trincea, a mani nude, il coronavirus?
Il blog di Insanitas pubblica un articolo della dottoressa Anna Maria Ferraro, psicologa e psicoterapeuta, in cui il problema viene affrontato nella pienezza del suo dramma.
“Che non vogliano essere identificati come eroi lo abbiamo letto diverse volte. E non è solo, come potrebbe apparire, una questione di pudore, riservatezza e contegno – scrive la dottoressa Ferraro -. Scostandosi dall’immagine dell’eroe, sfilandosi le mascherine dai volti segnati, arrossati e sfatti, medici, infermieri, tecnici e operatori sanitari ci mostrano le loro vulnerabilità, ci chiedono di riconoscere le loro parti fragili, sfinite, sfrante, stremate. Tutto il personale sanitario, svestito dalle dotazioni di sicurezza, e dalla sicurezza che impone il ruolo, rimane a contatto con le ferite profonde, con i traumi generati dall’esperienza di questi giorni in corsia.
“E chi di noi, nel momento più difficile, non desidera d’essere compreso nella fatica, piuttosto che lodato nella forza. E noi, siamo disposti a mettere da parte quello che ci serve per esorcizzare le nostre paure, compreso, appunto, le rappresentazioni degli eroi in corsia, per riconoscere che il vissuto del personale sanitario impegnato a combattere il covid-19 è (e soprattutto a emergenza finita sarà) più vicino all’esperienza delle vittime che a quella degli eroi?”.
“Perché benché instancabili, abnegati e generosi i nostri dottori e infermieri sono soprattutto uomini e donne. Vulnerabili come tutti noi. Spesso già provati da un carico di lavoro eccessivo per via della carenza negli organici, di turni estenuanti, di equilibri già precari (la sanità in Italia è anche questo) e infine messi con le spalle al muro dalla pandemia. Nella condizione di non poter far altro che appellarsi alla loro parte più resistente”.
E c’è da ricordare in calce il numero altissimo della vittime tra i camici bianchi. Ma anche l’onda d’urto quotidiana negli ospedali. Ha detto Toti Amato, presidente dell’Ordine dei medici di Palermo: “Non li chiamo eroi, non soltanto questo, ma, appunto, martiri. Infatti il martirio, l’offerta generosa di sé, costi quel che costi, prevede una profonda consapevolezza”.
La conclusione: “Perché più che durante l’emergenza, più che dei consigli, degli interventi di contenimento e supporto su come affrontare questi mesi in corsia (necessari, eccezionali ma diversi da ciò che si intende per terapia), i nostri “eroi” potrebbero avere bisogno di una mano, via via che i ricordi intrusivi cominceranno a irrompere, che i sogni cominceranno a farsi agitati e il nervosismo a farsi strada. Potrebbero avere bisogno di una mano anche quando il legittimo desiderio di evitare il contatto con l’esperienza traumatica non elaborata si scontrerà col fatto che quest’esperienza risiede negli stessi corridoi, nelle stesse stanze, negli stessi angoli dei loro luoghi di lavoro. Così, con l’augurio di poter rinascere, tutti, anche attraverso il dolore, il mio grazie a questi eroi fragili o, meglio, a queste vittime che dovranno essere resistenti”.