La guerra delle parole social: come difenderci dal condizionamento

La guerra delle parole social: come difenderci dal condizionamento

In gioco c'è la libertà

La guerra delle parole è un emblematico titolo usato nel 2018 dall’esperto di comunicazioni Vittorio Meloni per delineare il percorso della comunicazione come tratto distintivo di una evoluzione che ci ha condotti fino all’attuale supremazia di Internet, forgiando la società. Di recente è stato ripreso da Roberto Pecchioli per descrivere i protagonisti e gli obiettivi di un condizionamento psicologico attuato mediante il linguaggio. “La Guerra delle parole. Politicamente corretto, neolingua, cultura della cancellazione” (Nexus 2023), racconta come sia stata generata una lingua nuova per imporre un meccanismo di controllo mentale: se le parole hanno valore e potere, qualcuno è interessato a controllarle.

Inconsapevoli vittime

Passati dal politically correct, un linguaggio indotto e ingentilito per motivi politici, a un nuovo modo di definire le cose, siamo inconsapevoli vittime di questa guerra delle parole, condotta da chi gestisce le leve del comando, ovvero dai padroni del discorso. Nel lontano 1949, George Orwell, nel distopico quanto profetico “1984”, aveva già immaginato l’imposizione, da parte del potere, del newspeak, una lingua artificiale creata col fine non solo di fornire un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo, ma di impedire ogni altra forma di pensiero. Dimenticata la archeolingua, la neolingua avrebbe reso impossibile ogni pensiero autonomo, divergente dai princípi del “partito”. In buona sostanza, i limiti alla libertà di parola divenivano limiti alla libertà di pensiero.

Posto che quel che diciamo esprime ciò che siamo e la nostra visione del mondo, se le parole vengono sostituite e manipolate con l’obiettivo di impadronirsi del linguaggio, ovvero della funzione che caratterizza l’uomo rispetto agli altri esseri viventi, ecco che è in atto, che lo comprendiamo o meno, questa guerra che soprintende ai processi della conoscenza. In poche parole, potremmo diventare incapaci di pensare in modo individuale. Secondo Pecchioli siamo ben oltre la persuasione occulta, poiché la capillare diffusione delle reti social ha “persuaso” miliardi di utenti di avere conquistato la libertà, mentre nei fatti ne memorizza i dati e ne fa commercio, altresì attuando una censura privatistica, che, spesso, sui social si manifesta come autocensura, massima espressione del conformismo.

Come difendersi

Se un generale lavaggio del cervello è in atto, come ci si difende? Esercitando la libertà di pensiero. Stabilire cosa sia giusto o sbagliato deve discendere dal comune percorso di civiltà, non può essere il risultato di elaborazioni condotte a tavolino, anzi (ed è molto peggio), al computer, né si può demandare ad altri. Invece, c’è chi decide perfino con quali parole dobbiamo esprimerci, vietandone alcune e imponendone altre. L’università di Stanford, con l’intento dichiarato di “eliminare forme di linguaggio dannoso, tra cui quello razzista, violento e di parte”, ha codificato esempi di linguaggio “dannoso” e stabilito quali siano i corretti termini: contravvenire può significare commettere il reato di “hate speech”. Si è arrivati al punto di etichettare come dannoso il termine “americano”, dato che, secondo la definizione californiana, “spesso si riferisce solo a persone provenienti dagli Stati Uniti, insinuando così che gli Stati Uniti sono il Paese più importante delle Americhe”.

In nome della correttezza, si diffonde una nuova corrente culturale contraria al modello dominante considerato l’obsoleto prodotto della società patriarcale, la cosiddetta cancel culture, nata, in teoria, per escludere chi si esprima in maniera scorretta, in particolare riguardo a tematiche razziali e sessuali, mentre, in pratica, si traduce nel colpevolizzare, di solito tramite i social media, personaggi pubblici o comunque chiunque venga colto a esprimere contenuti ritenuti offensivi.

Ti tolgo l’amicizia…

Ti tolgo l’amicizia sembra essere l’aleggiante minaccia che incombe anche sulle celebrità con maggior seguito sui social. Coloro che una volta erano lettori o acritici ammiratori, hanno oggi il potere di boicottaggio, che esercitano ritirando, a torto o a ragione, il sostegno a personaggi considerati scorretti. Ma il dato più risibile, rispetto alla cancel culture, è il presupposto che si tratti di una manifestazione nuova. La pretesa di essere dalla parte della ragione, e di sopraffare gli oppositori, è un fenomeno umano, tanto che la storia è ricca di eventi (e di norme) a difesa della libertà di pensiero e di espressione, come della libertà religiosa, o politica. La cancel culture è la spaventosa pratica di mettere a tacere le opinioni impopolari; come ha dichiarato a Radio Times Rowan Atkinson, “abbiamo ora l’equivalente digitale della folla medievale che si aggirava per le strade in cerca di qualcuno da bruciare”, un totalitarismo del pensiero che potrebbe apparire intenzionato a difendere le minoranze, ma instaura nei fatti una sorta di perenne clima inquisitorio, di controllo e sanzione di ogni opinione non uniformata alla maggioranza. In buona sostanza, è un tentativo moralista di addomesticare il pensiero.

Per Orwell, dallo stravolgimento delle parole si passava al condizionamento degli individui, come dimostra l’appendice a “1984”, I principi della neolingua, tradotto e curato per Garzanti da Massimo Birattari, il quale ricorda, nella prefazione, le norme di una lingua soffocante, terroristica, che “diventa brutta e imprecisa perché i nostri pensieri sono stupidi, ma a sua volta la sciatteria della lingua ci rende più facili i pensieri stupidi”, mentre “pensare con chiarezza è il primo passo necessario verso una rigenerazione politica: così la lotta alla cattiva lingua non è un vezzo e non riguarda solo gli scrittori di professione”. Non è un vezzo intellettuale, ricordiamolo: è autodifesa.

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