PALERMO – Trentotto anni non sono bastati per lasciarsi i misteri alle spalle. Trentotto anni da quando Peppino Impastato fu “suicidato” sulla linea ferrata di Cinisi. Era il 9 maggio del 1978, cinque giorni prima che venisse eletto consigliere comunale nelle liste di Democrazia proletaria.
Ci sono voluti 24 anni prima che una sentenza stabilisse che Peppino non era un visionario, un poco di buono che giocava con le bombe fatte in casa. L’11 aprile 2002 per quel delitto il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti fu condannato all’ergastolo. Il padrino non tollerava lo sberleffo radiofonico di Peppino dalle frequenze di Radio Aut e le denunce che intaccavano i suoi interessi economici.
Una parte dei misteri don Tano, nel 2004, se li è portati nella tomba. È morto a 81 anni nel centro medico penitenziario Devens Fmc, ad Ayer, nel Massachusetts, dove stava scontando 45 anni per i traffici internazionali di droga della Pizza Connection. Una grave malattia riuscì laddove aveva fallito Totò Riina. Perché don Tano era scampato alla guerra di mafia degli anni Ottanta, alla furia omicida dei corleonesi. Nel 1970, al fianco di Luciano Liggio e Stefano Bontade, Badalamenti faceva parte del triumvirato che guidò la rinascita di Cosa nostra. Un anno dopo fu eletto al vertice della cupola mafiosa. Le cose sarebbero cambiate radicalmente alla fine di quel decennio. Con il boss di Cinisi prima esautorato e poi costretto a scappare.
Evitò il piombo. Lo stesso piombo che uccise, innanzitutto, Stefano Bontade e Totuccio Inzerillo. L’offensiva di Riina era iniziata tre anni prima, quando fu deliberata la sua espulsione dalla Commissione ormai presieduta da Michele Greco. Lo accusarono di avere tramato assieme al boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina, per ammazzare Ciccino Madonia, capomafia di Vallelunga. Fu il colpo di grazia per la credibilità di Badalamenti, già picconata quando Riina gli contestò il diniego all’omicidio del colonnello Russo. Su Badalamenti si addensò il sospetto che facesse il doppio gioco, addirittura che fosse un confidente dei carabinieri. I corleonesi fecero di tutto per stanarlo. Si rivolsero pure al cugino, Antonino Badalamenti, che però non tradì pagando con la vita la sua mancata collaborazione. Don Tano era ormai in Brasile e poi in Spagna, a Madrid, dove lo arrestarono nel 1984.
Erano gli anni dei grandi traffici di eroina. Fu estradato in America. Al giudice che gli chiese se appartenesse a Cosa Nostra, Badalamenti rispose lapidario: “Se lo fossi, non ve lo direi, per rispettare il giuramento fatto”. Negli Stati Uniti apprese la notizia della condanna per l’omicidio Impastato e dell’assoluzione, assieme a Giulio Andreotti, per quello del giornalista Mino Pecorelli.
La sua morte, però, non ha chiuso la partita investigativa. Si lavora parecchio sotto traccia. L’anno scorso la Procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sul suicidio del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo. Lombardo si sparò il 4 marzo del 1995, alle 22.30, all’interno di una macchina di servizio parcheggiata nell’atrio della caserma Bonsignore di Palermo. Lombardo voleva riportare Badalamenti in Italia dopo che con lui aveva avuto due colloqui investigativi nel carcere americano. Dietro la scalata al potere dei corleonesi, così raccontò Badalamenti, ci sarebbe stata la Cia e Totò Riina sarebbe stato una pedina dei servizi segreti americani. Lombardo voleva che il boss ripetesse quelle frasi nei processi italiani. “Tano Seduto” fissò una condizione per testimoniare al processo Andreotti: che fosse il maresciallo ad accompagnarlo dall’aeroporto. Il 23 febbraio 1995, tre giorni prima dell’arrivo del boss, nella trasmissione “Tempo reale”, condotta da Michele Santoro, Leoluca Orlando e Manlio Mele, all’epoca sindaci di Palermo e Terrasini, mossero accuse pesanti verso di lui, pur senza nominarlo. Due giorni dopo, uno dei confidenti di Lombardo, Francesco Brugnano, fu ucciso e abbandonato nel bagagliaio della sua auto. Il 4 marzo, Lombardo si suicidò, lasciando una lettera: “Mi sono ucciso – scrisse – per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e i miei figli che sono tutta la mia vita”. Ed è stata l’ostinazione di uno dei figli, Fabio, a portare alla riapertura dell’inchiesta da parte dello stesso pool di magistrati che rappresenta l’accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
E non è l’unico caso riaperto. Nonostante l’eventuale reato sarebbe abbondantemente prescritto, l’anno scorso il giudice Maria Pino ha imposto ai pm di Palermo di continuare a indagare sui depistaggi nell’inchiesta sulla morte di Impastato, archiviata troppo in fretta alla voce suicidio.