PALERMO – “Siamo dei rompiscatole e quello che diciamo dà fastidio”. Enrico Colajianni non cerca scorciatoie nelle parole e nei fatti. Ha scelto di fare lo sciopero della fame per protestare contro le interdittive delle prefetture di Palermo e Trapani che hanno colpito “Libero Futuro”, l’associazione antirackert di cui è presidente, provocandone la cancellazione dagli elenchi prefettizi.
Innanzitutto come sta?
“Sto bene, non me l’aspettavo ma sto bene”
Perché questa scelta estrema?
“Per la disperazione. Per un’associazione antiracket come la nostra la cancellazione significa la morte. Siamo stati persino buttati fuori dalla sede di via Alcide De Gasperi, perché non siamo considerati degni di stare in un bene confiscato alla mafia e assegnato dalla Prefettura al Comune di Palermo”.
Alla base dell’interdittiva ci sono i rapporti della sua associazione con alcuni imprenditori considerati border line. Lei ha sempre sostenuto che chi ha sbagliato va aiutato per rimettersi sulla retta via. Non c’è il rischio di prestare il fianco a rifarsi un’immagine?
“No, se le denunce sono genuine. Nell’interdittiva vengono citati i rapporti con imprenditori che hanno tutti denunciato e nessuno ha processi o indagini in corso. Non accetto che mi si dica che ‘Libero Futuro’ ha favorito la mafia con queste motivazioni risibili. Il caso più grave che ci vien contestato è il rapporto con i Virga di Marineo che si sono fatti cinque processi come vittime”.
Allora perché siete stati cacciati?
“Perché siamo stati fra le poche voci critiche di questi anni. Non si può fare la lotta alla mafia mettendo la polvere sotto il tappeto. Abbiamo appoggiato Pino Maniaci di Telejato (finito sotto processo per estorsione, ndr) quando denunciava le storture delle misure di prevenzione. Stessa cosa abbiamo fatto con il prefetto Giuseppe Caruso, il cui grido in Commissione antimafia non fu ascoltato. Ci siamo schierati contro l’interdittiva che aveva bloccato Sis, il consorzio di imprese che stava costruendo il passante ferroviario perché sapevamo con cognizione di causa che la mafia nel cantiere non c’era. Oggi scopriamo che a proporla fu il colonnello Giuseppe D’Agata che è sotto processo con Antonello Montante”.
Che c’entrano le due cose?
“Ho il sospetto che allora sia stata forzata la mano. Di sicuro i lavori hanno accumulato un anno di ritardo. Spero che la Procura di Caltanissetta indaghi anche su questo”.
Voi denunciavate Saguto, Montante e le storture dell’antimafia e oggi ne pagate il prezzo anche di fronte alla loro caduta. Ho capito bene?
“Paghiamo il fatto di avere protestato. Non bisognava aprire bocca su queste storture. Maniaci, Caruso, noi, ci faccia caso, siamo finiti tutti a gambe all’aria. Non bisogna parlare di certi argomenti. C’è chi ha deciso che va fatta fuori l’antimafia. Della serie tutti fanno schifo, nessuno fa schifo. Noi diciamo che le norme sulle misure di prevenzione e sulle interdittive sono da stato di polizia. Andavano bene quando c’era l’emergenza. Ma ora no. È un tema che dà fastidio, c’è chi abusa di questi strumenti. Qualcuno preferirebbe che si tacesse e ci considera troppo poco istituzionali”.
Adesso cosa resta del vostro lavoro?
“Abbiamo accompagnato almeno 300 persone nel percorso di denuncia. Ci sono dieci processi in corso, continuiamo a seguirli con difficoltà e lo facciamo come abbiano sempre fatto e cioè d’intesa con le forze dell’ordine”.
Mi consente una provocazione?
“Prego”.
L’antimafia è diventata per voi un lavoro o no?
“Siamo poveri e pazzi. Alcuni professionisti, penso agli avvocati, alla fine dei processi riscuotono delle somme per le parcelle e basta. Non abbiamo alcuna entrata. Prendevamo un piccolo finanziamento dalla Regione, ma l’abbiamo perso. Ho fatto parte per un periodo del Progetto Pon Sicurezza, ma è durato due anni e mezzo. Adesso il nostro impegno è a perdere. Prima che ci cacciassero dalla sede avevamo già pensato di lasciarla perché non potevamo pagare il condominio. Siamo nei guai. Ci abbiamo perso dei soldi di tasca nostra. Ci siamo esposti in tutti i sensi. Ci hanno bruciato le macchine, ci hanno ammazzato un cane”.
Cosa vuole comunicare con il suo sciopero della fame?
“Che siamo delle persone perbene. Ci sono decine di imprenditori delusi e scoraggiati”.
Quale segnale attende per smettere lo sciopero?
“Spero non quello del medico (accenna un sorriso, ndr). Abbiamo scritto al ministro Matteo Salvini e alle Commissioni antimafia, nazionale e regionale. Speriamo che ci rispondano, che si crei un dibattito sulla scia di quanto stanno facendo i Radicali in tema di Misure di prevenzione. La lotta alla mafia sta andando a rotoli. Se usi il napalm fai morti anche fra i civili. Non si può fare piazza pulita di un’intera economia”.