Lo scorso 31 luglio Michele avrebbe compiuto 77 anni e invece sono quasi quatto anni che non c’è più. E mi manca da morire e non perché fosse mio cugino, ma perché ci volevamo bene come fratelli. Anche di più. Io di fratelli, ne ho avuti cinque (oltre ad una sorella) ma mai a nessuno di loro fui legato come a Michele. Perché Michele era speciale. Chi fosse nella vita e nel lavoro, Michele Perriera, lo sanno (quasi) tutti: regista, drammaturgo, scrittore. “Sei un’arca di scienza”, gli direi una volta di più se l’avessi davanti e lui si farebbe una delle sue omeriche risate, che tutt’intorno spargevano allegria e gioia di vivere. E sì, perché Michele non finirò mai di rimpiangerlo ( e piangerlo) per la sua irrefrenabile gioia di vivere, che era contagiosa, una febbre dolcissima che si propagava a volo d’uccello e arrivava fino in cielo. M’è rimasto nelle orecchie – in quelle speciali preservate dalla memoria – il “din-don-dan” della sua risata, come un rintocco squillante di campana fatta di vetro. Di vetro di Murano, il più prezioso e delicato. Che ora c’è e ti riempie di gioia e poi non c’è più, si spegne lentamente fino al silenzio.
Ecco la cosa che mi fa soffrire di più della sua “assenza”: non poter godere della sua risata, che per me era un punto fermo irrinunciabile, perché era come sentirmi dire : “Ti voglio bene”. E io, anche se già lo sapevo, ne traevo ogni volta un indicibile senso di pace. Ero sempre io ad andarlo a trovare. Mi bastava passare sotto il balcone di casa sua, in via Giovanni Bonanno e se c’erano le serrande alzate anche d’inverno, anche di notte, lui era lì, al suo tavolo di lavoro, nel suo studio antico, un tavolo enorme stile impero letteralmente fagocitato dai libri, un’orda di libri, affastellati uno sull’altro, in un caos inestricabile. Arrivavo e lui, con la solita, inseparabile sigaretta fra le labbra, già rideva. Sì, rideva e non solo con la faccia; rideva con tutto se stesso, perché – diceva – “Sei forte, Benvenuto, tu sì che sei un artista!”. Insomma, io lo divertivo quasi quanto lui divertiva me e insieme diventavamo in un batter d’occhio un teatrino di cabaret. Risate da una parte e dall’altra, da scompisciarsi, che potevano durare delle ore, nelle quali entrambi ci scordavamo di tutto: io del mio lavoro, noiosissimo lavoro di avvocato per il quale ogni scusa era buona per interromperlo o rinviarlo e lui per staccare dalla sue “sudate carte”, e pure tanto amate.
E, quindi, tanto odiate, come capita all’artista, con i suoi “fantasmi”. Ci cercavamo e ci trovavamo sempre, perché insieme eravamo (ci sentivamo) più forti: le sue “sudate carte” lo impegnavamo sempre fino all’ultimo respiro; non ho mai visto nessuno più allerta di lui nel captare al volo il segnale di un’idea nuova, il lampo dell’artista, che vive di attimi, di flash, che durano un istante e, dopo, non c’è più niente. L’attimo fuggente, lo chiamano. L’artista vive di attimi fuggenti. La sua è una vita che oscilla di continuo fra l’estasi dell’ispirazione e l’inferno del … dopo. Ecco, la vita di Michele era spaccata a metà da questa implacabile dicotomia: da una parte l’abbaglio di un’idea nuova; dall’altra, la tenebra del “subito dopo”, quando l’idea, magari, era già svanita. Per questo quando mi vedeva arrivare gli si allargava il cuore e spuntava subito un sorriso nel suo volto scavato di studioso instancabile, sempre in lotta con i suoi demoni. Ero sempre io ad … aprire le ostilità, raccontandogli l’ultima delle mie “avventure” e lui già rideva, era come volesse ringraziarmi per averlo tirato fuori dal suo ultimo incubo.
Non mi disse mai su cosa stava lavorando; non mi disse mai: “No, Benvenuto, torna più tardi, lo vedi come sono impegnato”. D’altronde, io lo percepivo nell’aria se quello non era il momento giusto e facevo dietro front prima ancora che lui mi vedesse: sbirciavo dalla porta socchiusa e stavo a guardarlo per un paio di minuti. Non di più. Poi, o entravo o me ne andavo, silenziosamente. Ci bastava un’occhiata ed eravamo già in sintonia. Una tale sintonia che mi permetteva di scegliere l’approccio migliore, se un aneddoto sboccato oppure una battuta di Totò, il principe De Curtis, il nostro artista preferito. E qualche volta – rara, rarissima volta – capitò pure che a prendere l’avvio del teatrino fosse lui, che comunque restava il regista della scena. Sempre, anche, se non soprattutto, quand’ero io a far la parte del protagonista. I tempi dell’esibizione – la sua o la mia, la sua e la mia – era sempre lui a dettarli ed era questa la cosa che esaltava la mia performance. Era la “qualità” del nostro teatrino a renderlo stupendo; non erano risate e basta, le nostre, erano risate e pensieri e parole e ricordi e gioie e dolori. Erano la vita come la volevamo (la sognavamo) noi.
Ma capitava pure, all’improvviso, che, ascoltando in lontananza il refrain di un brano di Battisti o l’”andante” di una suite di Bach, le nostre risate di gioia diventassero di colpo lacrime di commozione, perché quel réfrain, quella suite ci ricordavano un fratello che non c’era più o un amore solo sognato e mai toccato con mano. Così eravamo io e Michele: due fratelli che si volevano bene e si raccontavano tutto, respirandosi l’anima l’un l’altro. Come succede solo a pochi fortunati della terra, che hanno avuto la ventura di incontrarsi, capirsi , piangere e ridere insieme. Ci volevamo così bene da perdonarci tutto reciprocamente, se pure ci fosse mai stato qualcosa di imperdonabile. Una volta, alla fine di un suo lavoro teatrale, mi venne incontro sorridendo e chiedendomi con lo sguardo un commento. Io di getto gli dissi subito: “Minchia, Michè’, unn’i capivu nienti … eppuri, un mi puotti muoviri ra poltrona!” E subito temetti una sua sfuriata e invece mi abbracciò di slancio e scoppiò in una delle sue contagiose risate, dicendomi tutto contento: “E chi tinni futti s’onni capisti nienti? L’importante è che ti sei emozionato al punto da non poter lasciare il tuo posto in sala!”.