La violenza tra israeliani e palestinesi: quello che mi disse Arafat

Israeliani contro palestinesi: “Quel mio incontro con Arafat nel 1974”

Un ricordo che racconta un'intera storia

Come una tragica parodia del calcio, ci si deve schierare. O da una parte o dall’altra. O per gli israeliani o per i palestinesi. O per il bene o per il male. Quasi che l’uno e l’altro alberghino in siti diversi e nettamente distinti. Così finisci per sentirti prigioniero, quasi partecipe e complice involontario di una radicalizzazione sempre più netta e inconciliabile.

Non voglio aggiungere banalità alle tante che si scrivono e si dicono sul conflitto in atto e sulle sue ragioni. Come causa immediata della terribile vicenda che si svolge da qualche settimana sulla pelle di innocenti di una parte e dell’altra c’è la brutale aggressione dei terroristi di Hamas ad inermi cittadini in quanto ebrei, sono i terroristi che anche con il loro statuto ribadiscono di non riconoscere Israele, di volerne la distruzione e di puntare alla sua eliminazione per dar vita ad uno stato palestinese in Cisgiordania con capitale Gerusalemme.

Mi potrei fermare qui, respingendo l’inesorabile logica dell’aut aut, di un’alternativa senza conciliazione che risolutamente nega, combatte e perseguita o aderisce in modo assoluto. Eppure mi viene voglia di riproporre ciò che da tempo dice l’ONU, quello che scrivono ancora in questi giorni diversi giornali israeliani, molti cittadini e intellettuali di quel paese sulle scelte di Netanyahu, sugli insediamenti e su quant’altro è capitato nel corso degli ultimi decenni.

Proseguo comunque con un lontano ricordo che potrebbe dare qualche spunto per una riflessione. Incontrai Arafat a Beirut nel 1974. Partecipavo ad un convegno parlamentare euro-arabo a Damasco. Da lì andammo nella capitale libanese ed insieme ad altri tre deputati democristiani, con la mediazione di Jumblatt, allora capo dei Drusi, una sera, a mezzanotte, dopo diversi giri viziosi a bordo di un grande jeeppone con quattro fedayn armati, vedemmo Arafat, protetto da decine di uomini, anche loro ovviamente armati fino ai denti.

Al termine del colloquio, quando stavamo per accomiatarci, il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina quasi gelandoci ci ricordò che il regno di Gerusalemme, sorto nel 1099 per iniziativa dei crociati, era durato meno di cento anni. Ancor meno, aggiunse, sarebbe rimasta la presenza degli israeliani in quella terra. Il giorno successivo l’intera delegazione di parlamentari provenienti da diversi Paesi europei fu in visita al campo profughi di Sabra e Shatila, quello dove sette anni dopo i falangisti cristiani, alleati di Israele, avrebbero compiuto una mostruosa strage.

Toccammo con mano la spaventosa condizione nella quale alcune migliaia di persone, giovani per lo più, erano costrette a vivere. Capimmo già allora il senso di quello che anni dopo avrebbe detto Andreotti: “Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista”. Dopo il 1974 Arafat cambiò opinione, avviando un percorso di pace insieme al presidente del Consiglio israeliano Yitzhak Rabin. Resta iconica e purtroppo mendace l’immagine dello stesso Rabin e di Arafat che si stringono la mano a Washington alla presenza di Clinton. L’esponente politico israeliano ricevette il premio Nobel per la pace ma pagò con la vita la disponibilità a realizzare due Stati in Palestina, assassinato da un colono ebreo estremista.

La storia che, come è noto, non insegna nulla ma che a volte si ripete tragicamente, ha visto formarsi e prevalere il gruppo terrorista di Hamas con l’obiettivo di distruggere Israele, lo Stato imposto dall’ONU nel 1948, ancora sull’onda della inenarrabile vicenda della Shoah. Dall’altra parte gli attuali successori di Rabin hanno finito per impedire di fatto la costituzione di due Stati e di due popoli che trovino convivenza e collaborazione.


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