Lampedusa, le lacrime e quei bambini carbonizzati

Lampedusa, le lacrime e quei bambini carbonizzati

Le tragedie dell'isola raccontate da chi lavora sul campo.
LA STRAGE DEI MIGRANTI
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Le stragi di Lampedusa scuotono l’indifferenza soltanto quando le persone che le vivono e che ne muoiono diventano veramente tali negli occhi di chi guarda. Altrimenti, il suono indistinto della parola ‘migranti’ nasconde ogni lembo di umanità. La cronaca dell’ultima tragedia riferisce di quarantuno vittime.

“Quattro superstiti – dice il dottore Francesco D’Arca (al centro della foto), responsabile dell’ambulatorio dell’isola – hanno raccontato che erano in circa quaranta su un barchino che si è rovesciato e che loro si sono salvati perché hanno trovato una barca abbandonata su cui poggiarsi. Lei ha mai visto uno di questi barchini? Sono strutture di ferro, con una linea sottilissima, basta un niente per farli capovolgere. I sopravvissuti non sono da noi, perché erano in buone condizioni fisiche, ma all’hotspot”.

Quei bimbi morti sul barchino

Lo sguardo del medico esperto coinvolge la sofferenza che prova chi, ogni giorno, si batte per salvare il salvabile. “Il peso umano per noi è molto forte – spiega il dottore D’Arca. Ogni volta è una storia diversa, ma è sempre la stessa storia di dolore atroce. Impossibile dimenticare. Io non dimenticherò mai l’esplosione di un barchino con la morte di due bambini. Sono un dottore, sono intervenuto e ho visto i corpicini carbonizzati. Un’immagine che non mi lascia più. E non dimentico le mamme che cullano i neonati morti. Sono cose impossibili da mettere via”. Come le lacrime silenziose di chi cerca, disperatamente, di salvare il salvabile.

Scruta il cielo e il mare, il dottore D’Arca: “Le condizioni meteo sono migliorate. Come previsto, gli sbarchi sono in ripresa. I primi quaranta sono arrivati stamattina alle dieci…”. Gente stipata su una imbarcazione fragile che rischia tutto e, quando riesce a salvarsi, vuole sapere che fine abbia fatto il compagno di viaggio.

L’appello e i segni di riconoscimento

Così è successo ad Haisman, originario della Guinea, ricoverato dal 25 luglio scorso al Policlinico. Moglie, madre e padre erano morti in Sudan. Una bimba di tre anni, sua figlia, sarebbe annegata e non ci sono tracce del fratellino e della sorellina del ragazzo. Asil, una ragazzina di tredici anni – secondo quanto è stato riferito al mediatore culturale – ha un tatuaggio sul polso – avambraccio sinistro sul quale è scritto in inglese “mio caro fratello Haitan” e porta l’apparecchio ai denti. Haider, sedici anni, indossava un pantaloncino nero e una canottiera bianca con delle ciabatte nere con su scritto ‘New York’.


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