L'anarchia del boss Micalizzi, genero di don Saro Riccobono

L’anarchia del boss Micalizzi, genero di don Saro Riccobono

Sono anni che il suo nome salta fuori nelle indagini. Caporrimo dice che va in giro senza autorizzazione

PALERMO – Sono anni che il suo nome salta fuori nelle informative sulla mafia palermitana. Ma oggi c’è una frase che dice molto di più sul boss Michele Micalizzi, settantenne genero di Saro Riccobono, boss storico di Tommaso Natale, fra i primi a morire nella guerra di mafia degli anni Ottanta.

Il reggente del mandamento di San Lorenzo Giulio Caporrimo nei suoi monologhi diceva che c’era qualcuno che ce l’aveva a morte con Micalizzi per la sua anarchia: “… io sto capendo che tu vai girando ovunque con quale autorizzazione al mandamento non si capisce…“.

Michele Micalizzi, dunque, girava. Il suo è un nome della vecchia mafia che ha saldato il conto con lo Stato. Con lui discuteva Tommaso Inzerillo nel 2017 uno degli scappati della guerra di mafia. Gli spiegava che si era attivato affinché anche al cugino Francesco Inzerillo, per lui era già avvenuto, venisse perdonata la sua appartenenza alla mafia perdente, schiacciata dai corleonesi negli anni Ottanta. Tommaso si era rivolto ai boss che comandavamo su Palermo per superare il diktat di quel “cornutone” di Nino Rotolo, boss ergastolano di Pagliarelli, il principale oppositore al rientro degli scappati caldeggiato da Salvatore Lo Piccolo, boss di San Lorenzo.

Tommaso Inzerillo spiegava a Michele Micalizzi: “… il divieto… e intanto, come ti stavo dicendo, è una situazione di mio cugino siamo tutti bloccati, siamo… ho un impegno con Settimo e io, quando ci andiamo poi vediamo, per cercare di rattoppare, ora vediamo, ora con questa morte”. L’uomo del dialogo era Settimo Mineo, il boss di Pagliarelli che ha presieduto la nuova commissione. La “morte” che aveva cambiato il corso delle cose era quella di Totò Riina.

Di Micalizzi, tornato in libertà da qualche anno dopo avere trascorso in cella un quarto di scolo, si è parlato nel processo per l’omicidio dell’agente della polizia penitenziaria dell’Ucciardone Calogero Di Bona. Per il delitto sono stati condannati all’ergastolo Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga. Di Bona scomparve una sera di fine agosto del 1979. Aveva 35 anni e tre figli che non avrebbe visto crescere.

Qualche giorno dopo la scomparsa di Di Bona in Procura era giunto un esposto firmato da un gruppo di agenti di polizia penitenziaria che descrivevano un carcere dove i mafiosi facevano i loro comodi. Protetti dalla compiacenza di alcuni agenti. Erano anni in cui bastava solo nominare un padrino per far tremare le celle.

“Carcere di mafia”, scrivono gli agenti che fanno un nome e cognome: Michele Micalizzi. Micalizzi, allora trentenne, stava scontando 24 anni per l’omicidio dell’agente Cappiello, ucciso il 2 luglio del 1975. Micalizzi, scrivono gli agenti, sarebbe l’autore del pestaggio di un collega, tale Angiullo, avvenuto all’interno del carcere. Un fatto gravissimo per il quale non è stato stilato neppure un rapporto. Perché? Forse perché Micalizzi attende che si concluda il processo d’appello per omicidio che lo vede imputato e i termini di custodia cautelare stanno per scadere. L’episodio del pestaggio avrebbe potuto “trattenerlo” in carcere. Nei giorni successivi, il sostituto procuratore Giuseppe Prinzivalli ascolta tutti coloro che sono coinvolti nella vicenda. Di Bona compreso. Le indagini, però, si chiudono con un nulla di fatto. Saranno riaperte decenni dopo grazie all’ostinazione dei parenti dell’agente.


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