Ora che Raffaele Lombardo ha deciso di buttare a mare tutta la sua giunta, ora che vengono finalmente cacciati a calci quegli assessori che non hanno nemmeno trovato il tempo di fare un salto all’aula bunker dove il Capo dello Stato rendeva onore alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ora che il mistero e’ compiuto, la prima tentazione sarebbe quella di gridare: presidente, perche’ non te ne vai pure tu? Una tentazione legittima: perche’ il Governatore, con il suo governicchio, in dieci mesi e passa, non ha fatto altro che sciorinare la giaculatoria manichea del bene contro il male e la commediola, un po’ piagnona, della Sicilia afflitta e sconsolata in eterna lotta con Roma cinica e padrona, se non addirittura ladrona. Invece le cose stavano diversamente, e Lombardo lo sapeva bene. Se avesse avuto il coraggio di dirle in tempo, forse non saremmo a questo punto.
Bastava sapere, per esempio, che la questione della sanita’, con tutti gli interessi che le giravano attorno, non poteva essere affidata soltanto al moralismo di un magistrato in carriera; carriera politica, va da se’. Perche’ era sin troppo facile prevedere che il moralismo avrebbe inesorabilmente spinto il dibattito oltre i confini della politica e avrebbe finito per criminalizzare onesti e delinquenti.
Certo, poi Lombardo lo ha capito e ha per fortuna tentato la mediazione. Ed e’ pure riuscito, bisogna dargliene atto, a impostare una buona legge. Ma la lunga e verminosa polemica tra Massimo Russo, detto l’eroe, e i “falchi” del centrodestra – ricordate la mozione di sfiducia ad personam presentata da Innocenzo Leontini e Rudy Maira nei confronti dell’assessore? – ha avuto l’inevitabile conseguenza di avvelenare i pozzi. Non solo.
Ha seminato, soprattutto tra gli uomini di Toto’ Cuffaro, la sindrome dell’accerchiamento. “Ci vogliono annientare”, ripetevano nei giorni infuocati dello scontro gli amici di “vasa vasa”. E non avevano tutti i torti. Lombardo e Russo infatti andavano avanti senza sosta e senza rimorsi, perche’ la coscienza, si sa, e’ un bene mobile: c’e’ quando viene e c’e’ quando va. Per esempio, quando il governicchio dei moralisti voleva promuovere tutti i propri fedelissimi ai vertici della burocrazia, senza nulla lasciare a Cuffaro e agli altri padri nobili della coalizione, la coscienza si assentava un po’, per un riposino. Poi, quando le ragioni dell’opportunita’ la reclamavano, tornava puntualmente in servizio.
I peccatucci dei moralisti – ahi, ahi Russo, beccato oggi sull’Unita’ dal censore Travaglio – hanno avuto certamente un peso.
Ma non determinante. Perche’ la batosta definitiva alla giunta di Raffaele Lombardo e’ arrivata dopo, come conseguenza di una faida interna che, da oltre un anno, insanguina, si fa per dire, e coinvolge il fior fiore del Pdl: da un lato la maggioranza del partito, riconducibile al presidente del Senato, Renato Schifani, e al ministro Guardasigilli, Angelino Alfano; dall’altro lato la minoranza raccolta attorno a Gianfranco Micciche’, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
I due gruppi si fronteggiano senza tregua ormai da parecchi mesi. Per l’esattezza dal giorno in cui Toto’ Cuffaro, colpito da una condanna a cinque anni per una maleodorante vicenda di mafia e spioneria, fu costretto a lasciare la presidenza della Regione.
Micciche’, leader storico di Forza Italia, avanzo’ la propria candidatura, ma Cuffaro e Schifani la stroncarono sul nascere. La mediazione tocco’ ad Alfano: poteva andarci lui al vertice di palazzo d’Orleans; invece il futuro Guardasigilli preferi’ convincere Berlusconi che non c’era altra scelta se non quella di convogliare i voti del centrodestra sul catanese Lombardo, a quel tempo capo del Movimento per l’autonomia, partito considerato allora in ascesa.
Per Micciche’ fu un grande affronto. E motivo di insanabile frattura. Con risentimenti, rancori, ripicche, livori, vendette, colpi bassi, liti, tradimenti, morti e resurrezioni. Poi – e siamo gia’ al febbraio scorso – sembro’ che le tensioni si fossero allentate: Alfano e Micciche’ si presentano davanti a Berlusconi e ricevono in tandem l’incarico di guidare il partito: l’uno avrebbe affiancato l’altro, in pace e armonia. E tutto sarebbe filato liscio se, nel frattempo, non fossero arrivate le elezioni europee.
Alfano e Schifani puntano su Salvatore Iacolino, manager della piu’ grande Asl d’Italia, quella di Palermo, che non si sa perche’ vuole ad ogni costo trasferirsi a Strasburgo. E su questa candidatura sperano di misurare la loro forza. Micciche’ non ci sta e lancia nell’arena Michele Cimino, assessore regionale al Bilancio. La battaglia – all’ultima conta: si sa che Berlusconi ama riconoscere la verita’ dei numeri – passa attraverso il governo regionale.
Anzi: attraverso Lombardo. Se il Governatore da’ spazio clientelare ed elettorale a Micciche’, suo fedelissimo alleato, Michele Cimino rischia di superare, nella corsa, Iacolino. Da qui la decisione di invertire la rotta. Di puntare, per il coordinamento regionale del Pdl, su un uomo dalla corteccia dura e ostile, per vecchie questioni catanesi, al presidente della Regione. Si apre l’era di Giuseppe Castiglione, presidente della Provincia di Catania e genero dell’astuta volpe di Bronte, il senatore Pino Firrarello, grande collettore di voti e di potere. E con Castiglione si apre la stagione delle ostilita’. O della caccia. Non passa giorno che il nuovo coordinatore regionale non vada addosso – con parole ineccepibili, per carita’ – a Lombardo e a Micciche’. E’ un fuoco di fila. Spara a zero Castiglione e sparano a zero, in coro, tutti gli amici di Schifani. Da Francesco Cascio, presidente dell’Assemblea regionale: “Il governo Lombardo e’ il peggiore degli ultimi quindici anni”. Al sindaco di Palermo, Diego Cammarata che, irritato per il mancato invito alla cena di Villa Igea in onore di Giorgio Napoletano, ripete tale e quale il giudizio di Cascio.
Data la situazione, a Lombardo non restava che precipitare sempre piu’ verso il fondo senza mai toccare il fondo. Stretto all’angolo da Schifani e Alfano, ben coadiuvati dall’Udc di Toto’ Cuffaro, Lombardo avrebbe potuto scegliere la morte lenta del “tirare a campare”. Invece ha preferito far saltare il banco. Ha raccolto le ultime forze e ha rovesciato sulla Babilonia dei suoi nemici il calice dell’ira. Si e’ inventata una Apocalisse pret a porter, di pronto intervento e di immediato effetto. “Le isole fuggirono e le montagne non si ritrovarono mai piu'”, recita il Libro degli Ultimi Terribili Giorni. Resta da vedere, tra tante macerie, quel che rimane di un’isola chiamata Sicilia.