L'indagine e il suicidio di Cesare Vincenti: "Papà era un uomo perbene" - Live Sicilia

L’indagine e il suicidio di Cesare Vincenti: “Papà era un uomo perbene”

Parla il figlio del magistrato un anno dopo il gesto estremo: "Ha subito un'ingiustizia"

PALERMO – Cesare Vincenti ha fatto per quarant’anni il magistrato. Esattamente un anno fa, pochi mesi dopo essere andato in pensione, ha deciso di togliersi la vita.

Per il figlio Andrea, che di mestiere fa l’avvocato, sarà il giorno del ricordo (una messa di suffragio viene celebrata alle 11:00 nella chiesa di San Francesco di Paola a Palermo) e al contempo l’ennesimo che trascorrerà ponendosi mille domande. Ce n’è una, dice, “che toglie il sonno a me, ai miei familiari e agli amici veri di papà: perché mio padre è stato oggetto di una profonda ingiustizia? Perché si è disposta una perquisizione a giugno quando la malattia l’aveva già divorato?”.

Quel giorno Cesare Vincenti e il figlio Andrea ricevettero un avviso di garanzia con contestuale perquisizione disposta dalla Procura di Caltanissetta che da allora ipotizza, l’inchiesta è ancora in corso, il reato di corruzione. L’ipotesi dei pm nisseni è che Cesare Vincenti, quando presiedeva la sezione Gip del Tribunale di Palermo, avesse saputo dal giudice per le indagini preliminari Fabrizio Anfuso che nel maggio 2018 stava per essere applicata una misura cautelare a Maurizio Zamparini, allora presidente del Palermo calcio. Anfuso ne parlò con il capo del suo ufficio, Vincenti appunto, e la notizia sarebbe arrivata a Zamparini che si dimise in fretta. Dimissioni che fecero venire meno le esigenze cautelari e le necessità di un’ordinanza.

Cesare Vincenti, in cambio della presunta soffiata, avrebbe ottenuto la nomina del figlio Andrea nel “Comitato etico”, l’organismo di vigilanza della società. Un incarico da seimila euro all’anno.

C’era un’inchiesta e i pubblici ministeri speravano di trovare nelle abitazioni dei Vincenti e nello studio del figlio il riscontro all’ipotesi di corruzione. Ecco perché fu necessaria quella perquisizione. La più scontata delle risposte al quesito di Andrea Vincenti non lo soddisfa: “Non posso pensare che non si sapesse in tutti gli ambienti giudiziari quale fosse la condizione di mio padre, una condizione così grave da costringerlo ad andare in pensione in anticipo. Avrebbe dovuto andarci a gennaio prossimo, ma aveva capito che non era più in condizione di svolgere la sua funzione”.

Cesare Vincenti combatteva una malattia subdola come la depressione. “Stava male, malissimo. La malattia lo aveva devastato – aggiunge il figlio – e allora mi chiedo che esigenza c’era di disporre una perquisizione nei confronti di una persona che era sempre stata al di sopra di ogni sospetto per le doti di correttezza e onesta che sono patrimonio di questa città”.

Ogni pm ha però l’obbligo di indagare: “È vero e nessuno, men che meno io, deve mettere in discussione questo principio, ma le indagini si possono condurre anche in altra maniera. Non capisco che esigenza c’era di presentarsi con dieci agenti alle sette del mattino a casa di un uomo perbene e malato di una patologia terrificante. Che prove si pensava di trovare a così tanta distanza dai presunti e inesistenti fatti contestati?” (era trascorso più di un anno dalla presunta fuga di notizie).

Andrea Vincenti spiega che a fare precipitare le cose non fu l’inchiesta in sé, “per la quale non avevano e non abbiamo nulla da temere”, ma lo stato di frustrazione: “Papà temeva di non potersi difendere perché stava male, ogni cosa nella sua testa diventava una montagna da scalare. Si angosciava persino riflettendo su quali vestiti avrebbe dovuto indossare nelle aule di Caltanissetta che sapeva essere molto fredde. Problemi banali vissuti con un approccio catastrofico. Se fosse stato in perfetta salute avremmo affrontato la faccenda senza battere ciglio, ma tutto è successo in un momento terribile. Non era il pensiero delle indagini, era consapevole dell’assurdità dell’ipotesi investigativa, lo consumava il pensiero di stare male e non potersi difendere. Per un uomo di legge è stato terribile”.

La vicenda giudiziaria riguarda in primo persona anche il figlio del magistrato e la considera una fortuna: “Meno male che sono indagato perché così mi difenderò anche per lui, altrimenti la vicenda giudiziaria sarebbe morta con papà”.

Usa parole dure Vincenti: “Ho chiesto quattro volte di essere sentito e non comprendo perché un sostituto titolare delle indagini non voglia sentire un indagato. Sono liberi di credere o non credere alle cose ho da dire, ma almeno me le facciano dire”.

Cesare Vincenti non ha avuto il tempo di difendersi, si è tolto la vita, il figlio dice di avere comunque “la consolazione che nessuno ha mai creduto che mio padre fosse corrotto, l’affetto e la stima nei suoi confronti sono rimasti intatti”.

Andrea Vincenti sgombra il campo anche dall’ipotesi, circolata nei giorni del lutto, che molti ex colleghi del padre gli avessero girato le spalle a causa dell’indagine tanto da disertare il giorno del suo saluto in Tribunale: “C’erano tanti suoi colleghi, di sicuro le persone con cui aveva lavorato e non solo magistrati – dice il figlio che a quel piccolo rinfresco era presente – e in ogni caso non si sarà neppure accorto delle assenze perché anche quel giorno stava male”.

Una malattia terribile che entra come un tarlo nella mente di chi ne soffre e che forse, ma nessuno potrà mai averne certezza, iniziò quando Cesare Vincenti non fu nominato presidente del Tribunale: “Ci restò molto male, era il candidato migliore e più qualificato”.

Adesso tocca al figlio, oltre che piangere un padre che non c’è più, difendersi dall’accusa di corruzione per quell’incarico ricevuto, ricorda, in tempi totalmente diversi da quelli della vicenda giudiziaria e fallimentare del Palermo calcio. Ecco perché Andrea Vincenti non si pente di avere accettato l’incarico: “Perché dovrei? Sono un professionista e anche se non sono stato neppure retribuito ritengo che sia stata un’esperienza formativa. Ci sono altre cose che ritengo incomprensibili”.

Quali? “Un uomo qualunque o un professionista come nel mio caso può restare indagato per tutto questo tempo? Mi conforta il fatto che ho continuato a lavorare. Un’altra persona a quest’ora sarebbe stata rovinata, ma la mia forza è tutta nel cognome che porto. È l’eredità di correttezza e onestà che mi ha lasciato mio padre. Era fermamente e intimamente convinto che la legittimazione del magistrato consistesse nella sua professionalità. La professionalità come fonte della legittimazione: è un principio che trovo di altissimo valore e che dovrebbe trovare sempre applicazione, tra i magistrati e non solo”.

Cesare Vincenti ha fatto il magistrato per quarant’anni. Si è occupato di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. C’era la sua firma nel decreto di confisca dei beni di don Vito Ciancimino, poi gli incarichi al Tribunale civile e alla Procura generale, infine la presidenza dell’ufficio Gip-Gup dove è rimasto fino alla pensione. Cinque mesi dopo la quiescenza il gesto estremo.

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