CATANIA- Mentre la colonna di fumo oscurava il cielo, parte dei catanesi si accorgeva dell’esistenza di un mega edificio comunale che sarebbe dovuto diventare un museo d’arte moderna. Lo scopriva probabilmente leggendo questo giornale. Per alcuni uffici ai piani alti del Comune, alle 15.30, quando le fiamme avevano divorato le volte alte 18 metri, disegnate dalla penna del “compagno” architetto Giacomo Leone, era ancora presto per rendersi conto che quello che bruciava era proprio un bene pubblico. Un bene che il Comune aveva il dovere di proteggere.
Non lo sapeva l’assessore Giuseppe Girlando, con delega al Patrimonio, convinto che fosse un “capannone di Virlinzi”, non lo sapevano i vertici della polizia municipale, gli stessi che avrebbero dovuto proteggerlo, tanto da preparare un comunicato ufficiale che non è stato diffuso solo grazie alle verifiche effettuate dall’ufficio stampa. Tanto erano convinti che l’incendio riguardasse cosa non loro, da insinuare il dubbio nell’assessore alla Cultura Orazio Licandro, che pochi mesi prima aveva predisposto un accordo epocale con l’Accademia delle belle arti per dare vita al primo museo contemporaneo di Catania. La voce che circolava a Palazzo degli Elefanti era che “la convenzione di Licandro riguardava una succursale del palazzo delle Poste, quello che brucia è di Virlinzi”.
Poco importava se l’ingresso dell’edificio in fiamme fosse presidiato da due cartelloni, il primo, incenerito, con scritto “benvenuti a Catania”, il secondo con l’indicazione dell’ultima parte di finanziamento per la ristrutturazione con tanto di scritta “Comune di Catania”.
Addirittura, nei momenti più caldi della giornata di ieri, c’erano alcuni dipendenti che assistevano all’incendio attraverso le “telecamere di sorveglianza” e più assistevano più erano tranquilli, più erano tranquilli, più tranquillizzavano.
E invece no. Era del Comune di Catania e, come accade nelle amministrazioni pubbliche che si rispettino, dopo l’incenerimento di un museo non custodito e occupato da migranti, almeno una testa dovrebbe cadere.
Non era un posto tranquillo quel museo mai entrato in funzione. Stancanelli lo aveva ignorato, solo Orazio Licandro lo aveva preso in considerazione per rilanciarlo con un progetto fortemente voluto dal sindaco Enzo Bianco.
Negli ultimi tempi è stato estratto un cadavere da quella struttura che, dopo anni di degrado, era diventata una vera e propria discarica, razziata del ferro delle coperture, vandalizzata fino all’inverosimile e trasformata in un ghetto nel quale disperati, tossicodipendenti e alcolizzati avevano carta bianca.
Secondo il vicesindaco Marco Consoli, “il comune di Catania, ha messo in atto tutte le misure possibili per impedire l’accesso a chiunque”. Evidentemente le misure di Consoli non sono riuscite a evitare che il museo abbandonato diventasse un porto di mare, sprovvisto di recinzione e dimora fissa di una decina di migranti. Alcuni di loro li abbiamo immortalati appena una settimana fa, armati di macchine fotografiche e telecamere, mentre preparavano il pranzo con la carne arrostita in mezzo alla spazzatura. Quali sono queste misure messe in atto dal Comune? Ancora in questo momento chiunque può entrare dal Viale Africa.
Del fiume di soldi spesi in questo futuristico museo resta solo una montagna di cenere.
Gli uomini della Multiservizi e gli abitanti del quartiere parlano di strani traffici che si consumavano all’interno dello stabile.
In particolare nessuna ipotesi sull’origine dell’incendio può essere scartata, è il secondo incenerimento, in tre giorni, di una struttura in cui vivono migranti, la zona è piena di telecamere di sorveglianza, ci sono quelle della Posta e quelle della Stazione, i filmati potrebbero chiarire molti dubbi: se esiste, per esempio, un piromane, o se l’incendio è partito dall’interno, tra quell’ammasso di rifiuti nella grande sala che doveva essere museo. Magari grazie a un bracere lasciato acceso o con una cicca di sigaretta lanciata tra la monnezza.