Allora è così che sarebbe un aereo, se gli togliamo tutto quello che ne fa un aereo. Solo un involucro rattoppato di carbonio bianco, sul quale si riesce a ricomporre uno scritta rossa, “Itavia”. Ecco, il nome della compagnia aerea (ormai solo un ricordo del traffico dei cieli) lungo la carlinga; poi, ricostruendo con la memoria, la sigla del modello, “Dc-9”.
I resti raccolti in mare dell’aereo inabissatosi nelle acque di Ustica la sera del 27 giugno 1980, sul quale si erano imbarcate a Bologna le 81 persone morte prima di arrivare all’aeroporto di Palermo, sono adesso all’interno del Museo per la memoria di Ustica, nella città dalla quale il volo partì. Il cadavere del velivolo è abbracciato da un’installazione permanente, opera dell’artista francese Christian Boltanski.
Un aereo dovrebbe stare in piedi da solo. Questo, invece, è tenuto assieme da uno scheletro di metallo. Quello che una volta era il corridoio, ora è un’impalcatura. Le misure sembrano ridimensionate. Perché il vuoto non è facile da riempire usando “solo” l’immaginazione. Cerchi di pensare a come potevano essere disposte le due file di sedili, e ci riesci a stento. Più semplice è pensare a quella che doveva essere la scena dell’imbarco, quando i passeggeri di quel volo non arrivato a destinazione hanno sistemato i bagagli sulle loro teste, si sono seduti e hanno allacciato le cinture. È facile perché tutto in questo capannone parla di loro. Poi, però, cerchi di distogliere il pensiero da ciò che è successo nemmeno un’ora dopo dal decollo. Senza riuscirci.
Sul soffitto viene proiettata la luce di ottantuno fari, uno per ogni vittima. La luce è intermittente, si accende e si spegne con l’intervallo regolare di un respiro che segue l’altro. Tu pensi, “solo i vivi respirano”. E così ti rendi conto di quanto sia vero che non si è morti se il ricordo non scompare. Tutto attorno alla carcassa dell’aereo, il cammino di chi è qui per non dimenticare viene riflesso da ottantuno specchi neri. Dietro questi prendono corpo ottantuno voci, che si materializzano attraverso ottantuno altoparlanti. Ottantuno flussi continui di pensieri, i più comuni, i più naturali. Come naturale sembra vivere, e allo stesso tempo casuale e ineluttabile sia morire.
Gli oggetti appartenuti alle ottantuno vittime, ciò che avevano riposto nelle loro valigie, o più semplicemente ciò che portavano addosso quella sera, quello che il mare ha avuto la clemenza di restituire, sono riposti in nove casse nere. Non puoi vedere cosa c’è dentro le casse, anche se sai benissimo cosa puoi trovarci dentro. Già, siamo tutti uguali nella vita, come nella morte. Per chi ci crede c’è la giustizia divina. Per tutti, anche per chi vive nella memoria, c’è quella umana e terrestre. Anzi, dovrebbe esserci.
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