Le scarpe sotto il lenzuolo | L'ultima sera di Francese - Live Sicilia

Le scarpe sotto il lenzuolo | L’ultima sera di Francese

L'uomo che camminava per tornare a casa. Gli spari. Il figlio che lo trovò morto.

Le scarpe e poi il resto. Quest’uomo che camminava fu visto dalle scarpe. La sera doveva essere dolce, come certe didascalie struggenti di Palermo. Maledetta Palermo che ti stronca tutto l’anno, ma poi bastano una malia o un bagno a Mondello il 5 novembre e tutto dimentichi. E tutto perdoni.

Era inverno, ma la sera poteva davvero essere dolce e struggente. Esiste una memoria dei gelsomini che pervade le stagioni. Cammini sotto la pioggia, eppure li senti, al confine delle narici, come se fossero ancora lì. C’è sempre una siepe di gelsomino in ogni storia che si racconta quaggiù.

Quest’uomo che cammina, adesso, nei nostri pensieri, come se pure la memoria del sangue, con la siepe, fosse rappresa in un frullato di sgomente eternità. Ha pochi capelli in testa. Spettinati. Un cappotto sgualcito, forse. Non si hanno notizie di ombrelli. Forse cammina a capo chino, rimuginando sulla giornata, nel punto in cui gli affanni formano l’ultimo catalogo delle apprensioni, prima di sciogliersi nel calore di una porta familiare che si apre.

Dietro quella porta c’è la moglie, ci sono i figli. C’è il mondo che si ritiene protetto, che niente potrà raggiungere o ferire. Ecco una magione palermitana, verosimilmente. I termosifoni riscaldati. Vecchie cose di antico e nuovo gusto affastellate qua e là. Una tavola con la tovaglia. Il Tg1 nel televisorino in bianco e nero. Un balcone che dà sul freddo che c’è laggiù, fuori, e che – mostrando il rigore oltre l’involucro – svolge il compito di segnaletica della serenità. 

Ma quest’uomo che cammina a casa non arriverà mai. Gli sparano, mentre sta camminando. Le candide corolle dei fiori, ovunque, trasaliscono al botto.

Si apparecchia la scena di un omicidio, non è insolito a Palermo in quegli anni. Uno dei figli dell’uomo che cammina è un cronista sulle orme del padre. Torna in autobus. Alla fermata convenuta scende e si avvia – pure lui – verso casa. I suoi sensi si allarmano quando vede i lampeggianti, le divise, le ombre, di cui una riversa sull’asfalto. Il lenzuolo già insanguinato, accanto a una macchina posteggiata

Si avvicina.  Nota le scarpe calzate dal corpo che giace per terra. Non le riconosce. Per un secondo di beatitudine, non sa. Per un guizzo di residua felicità, non capisce che tutta la sua esistenza sta per essere afferrata e scaraventata in un pozzo da cui sarà complicato risalire.

Intanto, ecco che arriva un poliziotto gentile e sussurra: hanno ucciso tuo padre, con la delicatezza possibile di chi deve comunicare a un ragazzo l’ingresso cruento e sanguinario nell’età adulta. Quel poliziotto è un duro, un uomo abituato a maneggiare cadaveri. Ha baffi suggestivi che ricordano un po’ Bufalo Bill sulla coda di un bisonte. Ha uno sguardo buono e affettuoso e chissà com’è adesso, nel dare la notizia. Si chiama Boris Giuliano.

Il ragazzo che ha ormai ravvisato tutto è Giulio Francese, figlio di Mario. Diventerà un giornalista professionista e un maestro di giovani generazioni di aspiranti colleghi, proprio come suo padre. Di quella sera dolcissima, mortale e struggente, conserverà sempre qualcosa in fondo agli occhi chiari. Ma Giulio è uscito dal pozzo.

Mario Francese di taccuini, di biro e di scarpe. Mario di siepi di gelsomino vere o immaginarie. Pochi capelli in testa, un cappotto sgualcito e – chissà – un ombrello per la pioggia. Mario Francese, anima inscalfibile che raccontò l’orrenda epopea mafiosa dei corleonesi e pagò per i suoi articoli coraggiosi, in anticipo sui tempi, senza compromessi. Purissima filigrana di giornalismo.

Mario e la porta di casa che non si aprì, affrontando il morso del rimpianto. Perché non sappiamo mai l’ultima parola, il residuo sguardo, l’estremo silenzio, l’istante che verrà cancellato. Ché – se sapessimo, se conoscessimo il binario e il momento dell’addio di colui e di colei che amiamo – avremmo cura di forgiare, per un solo attimo, il senso di una vita intera. Parleremmo a lungo, con le labbra incollate alle orecchie. Ci stringeremmo, per cucirci addosso un frammento di sgomenta eternità che ognuno porterà con sé nel suo resto di buio.

Mario Francese, sua moglie, i suoi figli, i suoi termosifoni. Mario il padre, il marito, il figlio, il cronista di giudiziaria. Mario ancora qui, come se fosse ieri, a dispetto degli anni. L’amore indossa scarpe con i lacci, per inciamparci meglio.


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