Mafia, fuciale e attentati: le estorsioni nella città che non denuncia

Mafia, fucilate e attentati: il pizzo nella città che non denuncia

Il caso Biancavilla, gli accertamenti e i verbali del pentito

BIANCAVILLA (CATANIA) – Fucilate a pallettoni in grado di perforare saracinesche e sbriciolare qualsiasi vetrina. Bottiglie incendiarie piazzate nelle attività che non pagavano. Officine, librerie, rinomate attività di ristorazione, centri per il commercio di prodotti per l’edilizia e perfino i giostrai. Tutti sotto estorsione, ma nessun imprenditore che abbia mai denunciato il pizzo. Nessuna lamentela contro gli affiliati agli Ercolano – Santapaola, sanguinari, quelli del clan Toscano – Tomasello – Mazzaglia. Il pentito Vincenzo Pellegriti ha svelato agli investigatori, coordinati dal Pm Francesco Puleio, il libro mastro delle estorsioni. Con nomi e cognomi.

Bottiglie incendiarie e “amici”

Ventinove maggio del 2019, Mario Venia, ritenuto dagli inquirenti un affiliato al clan, va in un negozio di ricambi auto. Le cimici dei carabinieri registrano l’estorsione in diretta. Il colonnello del gruppo malavitoso parla da “amico” e lo rivendica. Il commerciante ha subìto una rapina, che lo ha fatto indebitare tanto da dover pagare 5mila euro al mese per i danni. Venia consiglia di “concordare” il pagamento di una somma per evitare che “altri” potessero piazzare “qualche bottiglia”. A quel punto l’imprenditore, tra l’altro molto noto nel settore del commercio di prodotti per autovetture, fa una verifica incrociata, per accertarsi che l’esattore del pizzo fosse legato al vero boss: Pippo Mancari detto ‘U pipi. Il titolare del negozio afferma di essere, a sua volta, “amico” del reggente e “cerca pure – annotano gli investigatori – di capire se il Venia fosse stato mandato dallo stesso Mancari”.

“Aspetta – dice l’imprenditore all’esattore del pizzo – non sbagliare a parlare, non allunghiamo le cose. Il referente è Pippo a Biancavilla?”. “Certo – risponde lo scagnozzo – c’è lo zio Pippo”. Ecco il consiglio per il commerciante: “Parla tu con Pippo e gli dici <me ne sono andato là, che devo fare e come mi devo comportare>…basta…dopo di che tu mi dai la risposta”. E ancora: “Io – dice Venia – preferisco che vengo io…perché…se no…la bottiglia…a coppola dello zio Vincenzo…gli ho detto, qui ci vado io, me la vedo io, sono amici miei”.

Il gruppo delle estorsioni

Piero Licciardello, Manuel Amato, Mario Venia, Placido Galvagno detto Dino e Fabrizio Distefano “erano dediti alle attività estorsive nei confronti di commercianti e imprenditori”.

I carabinieri li intercettano quando si diffonde la notizia del pentimento di Vincenzo Pellegriti detto ‘Chiovu’. “A quest’ora – dice Venia – quel figlio di suca minchia del chiovu tutte cose gli ha detto”. E così è stato, anche se i presunti affiliati sapevano che Pellegriti non fosse a conoscenza di tutto. “Lui – continua Venia – in un paio di posti andava, poi ultimamente gli abbiamo detto, “ci sbrighiamo tutte cose noi altri”!…lui non ci mangiava”.

I verbali e le fucilate

“Sono a conoscenza inoltre di moltissime attività estorsive ancora in atto del clan sia perché io stesso su richiesta di Dino Galvagno e di Longhitano ne ho ritirate molte, sia perché ho avuto notizie da altri componenti del clan mafioso”. Vincenzo Pellegriti mette nero su bianco alcune estorsioni del clan, destinate agli stipendi dei detenuti. Il sospetto è che si tratti della punta di un iceberg. Il pentito La Rosa, per esempio ha spiegato perché la saracinesca del noto negozio di mobili Buttafuoco venne crivellata di colpi di fucile a pallettoni. L’imprenditore era colpevole di non aver regalato i mobili al boss Rosano. A un rinomato negozio di scarpe, invece, fu mandata in frantumi la vetrina, in quel caso intervennero anche i catanesi.

L’elenco delle estorsioni di Pellegriti

Uno dei principali bar di Biancavilla “pagava 500 euro tre volte l’anno, a San Placido, Natale e Pasqua. Pellegriti si autoaccusa: “Io ho cominciato a ritirare questa estorsione verso il 2017, all’inizio era libero come reggente Carmelo Vercoco e i soldi li davo a lui, poi quando venne arrestato il Vercoco ho cominciato a dare i soldi a Longhitano”. Il padrone del bar pagava un ulteriore canone, anche per un altro locale di sua proprietà.

Sotto estorsione anche alcuni gommisti, e un camion dei panini “anche questo pagava 500 euro tre volte l’anno per le tre feste di Pasqua, Natale e S. Placido. Quando era ancora fuori Vercoco ci andava a ritirare l’estorsione Alfio Muscia, poi su mandato di Longhitano sono andato io”.

All’esattore del pizzo andava il 20% dell’importo riscosso. “Altra estorsione che ritiravo – continua il collaboratore – era quella ai danni della ditta che vende pesticidi. Anche tale ditta pagava 500 euro ogni festa”.

Sotto estorsione anche una libreria, “che pagava sempre 500 euro per tre volte l’anno per le feste”. A Pellegriti fu chiesto di ritirare anche altre estorsioni, per importi minori, in una profumeria, un negozio di tende “ma io mi rifiutai”.

Tutti sotto estorsione

Pizzo anche al mulino della farina e a una “grossa rivendita di calcestruzzo”, ma soprattutto, il clan riscuoteva i soldi da “un grosso magazzino di arance”. Si tratta di uno dei principali della provincia di Catania, con il brand che campeggia sugli autotreni diretti al Nord. I soldi riscossi una volta sparirono e Pellegrito confida di aver assistito “a una discussione tra Manuel detto ‘Ciuccetto’, Dino Galvagna e Piero Licciardello”. Sparirono anche i soldi del pizzo ai danni di un vivaio e salì la tensione del clan: i fondi erano “per uno dei fratelli Amoroso”.

Le estorsioni per la carne di cavallo

Un atto di rispetto, la festa del Patrono di Biancavilla era uno dei principali momenti in cui pagare il pizzo. Sotto estorsione anche le bancarelle della carne di cavallo. “Il sistema funzionava in questo modo – dice Pellegriti – sostanzialmente chi voleva montare una bancarella era costretto a comprare la carne di cavallo per il tramite del clan mafioso, ed in particolare per il tramite di uno del clan che si incaricava di andare dai titolari delle bancarelle e imporre loro l’acquisto di carne che poi lui a sua volta comprava da una macelleria autorizzata”. La carne veniva rivenduta, con un ampio margine per il clan, ai bancarellisti. “Se qualcuno si rifiutava – ammette il pentito – e voleva comprare la carne direttamente dal macellaio, veniva minacciato e poi gli danneggiavamo la bancarella anche dandole a fuoco”.

Pizzo sui panini e sulle giostre

Pizzo anche sui “panini morbidoni”, che venivano imposti “da Cristian Lo Cicero ai camion e bancarelle che vendevano panini”.

Il clan riscuoteva un pizzo particolare dai giostrai. “Sono costretti – svela Pellegriti – a dare circa 100 blocchetti da circa 20 biglietti gratuiti per “i figli dei detenuti”. In realtà poi negli ultimi anni le persone del clan mafioso che ritiravano questi blocchetti poi li regalavamo a nostro piacimento, così ad esempio l’anno scorso io, Piero Licciardello e Manuel Amato abbiamo ritirato questi blocchetti e li abbiamo regalati a chi volevamo noi”. In alcuni casi, al posto dei biglietti omaggio, scattava il pagamento di 500 euro per ciascuna giostra, per esempio “la ruota o il tagadà”.

I soldi venivano distribuiti sotto la vigilanza dei reggenti. Una parte agli esattori, il grosso delle somme alle famiglie dei detenuti. Un meccanismo capillare e ben radicato. Nessuno ha mai denunciato.


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