La coca e i ricatti dei boss | Storia di un imprenditore - Live Sicilia

La coca e i ricatti dei boss | Storia di un imprenditore

L'inchiesta della Procura e dei carabinieri di Palermo svela le vicissitudini di un imprenditore.

PALERMO – Il tunnel della droga. Le pressioni dei mafiosi che vogliono essere pagati. I debiti diventano una voragine e l’imprenditore perde tutto. Il vizio della cocaina lo ha ridotto sul lastrico. Lo ha costretto a trattare con i boss. A subirne le angherie.

Alla droga si è avvicinato tre anni fa. All’inizio era il costoso passatempo di un uomo benestante a caccia di emozioni, nuove e forti. Poi, la cocaina è diventata un alleato, subdolo e traditore, in un momento di sofferenza psicologica. Non ha fatto altro che acuire la depressione provocata da un lutto. Ed è diventato un incubo.

Le visite del pusher a domicilio sono diventate settimanali. Tra il 2011 e il 2013 l’imprenditore ha comprato settecento grammi di stupefacenti e accumulato un debito che superava i 50 mila euro. Fino a quando non ricevette una telefonata da un collega. Un commerciante come lui, dello stesso settore, che lo metteva in guardia. Sul suo conto avevano preso informazioni alcuni pezzi da novanta della mafia palermitana. Il pusher lavorava per i boss del mandamento di Porta Nuova. Era con loro che si doveva trattare da quel momento in poi.

Dopo qualche settimana i mafiosi decisero di non affidarsi più a degli intermediari. Si fecero vivi nell’attività commerciale. Erano in sei. Quattro persone restarono fuori. Due entrarono nel suo ufficio. Erano, almeno così hanno ricostruito i carabinieri, Alessandro D’Ambrogio e Onofrio Lipari detto Tony. Il primo sarebbe stato arrestato qualche mese dopo, nel luglio 2013, con l’accusa di essere il capo mandamento di Porta Nuova. Il secondo in carcere c’è finito nell’aprile scorso durante il blitz che avrebbe svelato i piani di morte di Giovanni Di Giacomo, killer ergastolano, che contro Onofrio Lipari e il padre Vittorio, da poco scarcerato, aveva deciso di scagliare la sua ira. Era convinto che fossero stati i Lipari ad ammazzare il fratello Giuseppe, crivellato di colpi alla Zisa.

D’Ambrogio non voleva fare cose “tinte”, ma solo sistemare la faccenda. Almeno così disse all’imprenditore che a garanzia del suo debito fu costretto ad offrire il Suv. Il top della gamma Bmw. Nel frattempo, però, continuava ad alimentare la sua dipendenza con continui acquisti di cocaina. In breve tempo l’imprenditore ha accumulato un altro debito da 17 mila euro. L’unica novità era che aveva cambiato pusher. Anche i nuovi fornitori, però, rispondevano agli uomini di Porta Nuova. La prima volta mise sul piatto una fiammante Bmw. La seconda, la richiesta fu più onerosa: un gommone con due fuoribordo e alcuni orologi delle marche più prestigiose, Frank Muller, Rolex e Cartier. Roba da decine di migliaia di euro ciascuno. L’imprenditore ebbe subito il presentimento che non avrebbe più rimesso le mani sui beni. La certezza arrivò ascoltando le parole di D’Ambrogio e Lipari. Lo convocarono in un locale di viale Regione Siciliana. Era la sede dell’attività commerciale del collega che lo aveva messo in guardia la prima volta. D’Ambrogio e Lipari gli comunicarono che il gommone e un orologio erano stati venduti. I soldi, però, non bastavano a saldare il debito. Restava un buco da 17 mila euro.

Avevano detto una bugia. La Bmw aveva sì cambiato proprietario, ma non era stata venduta. Al volante sedeva una donna, una parente di Alessandro D’Ambrogio. Gli arresti di luglio hanno stoppato il potere del reggente del mandamento di Porta Nuova. E probabilmente anche il recupero crediti del clan. L’imprenditore, però, ha perso tutto.

 


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