CATANIA – Sono le custodi dei segreti di “famiglia”. Delle famiglie della mafia catanese. Madrine che nulla hanno da invidiare ai boss: carismatiche, argute, spietate. In una gerarchia tipicamente patriarcale alcune mogli e madri hanno trovato spazio di potere all’interno delle cosche criminali. Messaggere, manager, contabili, vere e proprie “cape” militari.
Nessuna “pungiuta” per le donne di mafia, il “rispetto” della famiglia lo hanno acquisito sul campo. E per essere rispettate si sono dovute dimostrare inflessibili e all’altezza del nome che rappresentavano. Viviamo un periodo storico dove i clan sono decimati e i boss di livello sono dietro le sbarre e quindi per “conquistare” il ruolo di responsabile basta fare “il malandrino” nel quartiere, magari mostrando la pistola “alla cintola”. Ma di caratura criminale, tipica dei vecchi boss degli anni ’90, questi “sperti” dei quartieri non ne hanno nemmeno l’ombra.
E allora ci sono le donne che prendono piede e scalano i vertici. Diventando la proiezione del marito capomafia o del parente di rango mafioso. E con una furbizia, tipica delle femmine, agguantano il potere e lo amministrano. E con meno rischi dei “carusi” in strada, di finire dietro le sbarre.
Il mensile S, da oggi, in edicola ha dedicato un lungo speciale alle madrine di Catania. Da Rosa Morace, moglie dell’uomo d’onore Santo Mazzei, da poco condannata a 9 anni in primo grado nel processo Ippocampo, Concetta Scalisi di Adrano e Mariella Scuderi, vedova di Santo Laudani, entrambe alla sbarra (anche se con riti diversi) nel maxi processo scaturito dall’inchiesta Viceré che ha azzerato il clan Laudani, fino alla napoletana Maria Campagna, storica partner del capomafia Turi Cappello e imputata nel processo Penelope. E non solo loro. Continua a leggere sul Mensile S.