Mafia e pentiti di terza generazione| Pizzo e misteri nel limbo dei ricordi - Live Sicilia

Mafia e pentiti di terza generazione| Pizzo e misteri nel limbo dei ricordi

Ci sono i collaboratori dal cognome pesante che, però, hanno appena fatto in tempo a vivere la stagione dei padri. E ci sono quelli che si limitano a dirigere il traffico nella miseria di Cosa nostra. Sanno poco degli omicidi e dei grandi patrimoni ripuliti chissà dove e come.

PALERMO – Vito Galataolo non sapeva il nome dell’avvocato che curava gli interessi di famiglia. Sì, c’era un professionista “asservito” al clan, ma non ne conosceva l’identità, tanto che, quando gli mostrarono la foto, non lo riconobbe. Eppure Marcello Marcatajo per decenni, così sostiene l’accusa, avrebbe ripulito i soldi del padre che hanno consentito a Vito, oggi quarantaduenne, di fare la bella vita. Volendo usare le parole dello stesso avvocato Marcatajo Vito Galatolo era uno di “questi signori che hanno attinto e attingono da questa minna che è la mia, sia come denaro, sia come garanzie, sia come attendibilità”.

Gli anni passano, è questo il punto. E i pentiti di terza generazione sanno poco o niente di una stagione che non hanno vissuto o che hanno vissuto solo di riflesso. Vale per Vito come per la sorella Giovanna, pure lei collaboratrice di giustizia, che ha fatto in tempo ad ascoltare il padre Vincenzo parlare con i boss nella casa di vicolo Pipitone, da cui partivano gli squadroni della morte. E vale per tutti gli altri che si sono pentiti, non hanno un cognome pesante in Cosa nostra e hanno poco da raccontare.

Sono figli di una mafia nuova che vive di pizzo e droga. Spesso si sono limitati a incarichi da disbrigo pratiche. Dirigono il traffico tra le miserie di una città. Se lo spessore criminale dei mafiosi si è abbassato, lo dicono gli inquirenti, di conseguenza si è abbassato anche il livello dei collaboratori di giustizia. Prendete Silvio Guerrera, illustre sconosciuto divenuto capomafia quando serviva da piazzare qualcuno al vertice di una mafia azzoppata dagli arresti. Non a capo di una delle tante famiglie cittadine, ma di quella di Tommaso Natale, feudo di Saro Riccobono nel passato remoto e di Totuccio Lo Piccolo in quello prossimo. Guerrera, però, non aveva il rango necessario per le cose più serie. E così restò sulla soglia della porta di ingresso nella stanza di una palazzina del rione Ballarò dove, così racconta Vito Galatolo, fu deciso l’attentato al pm Antonino D Matteo.

Guerrera, però, come tutti i pentiti della terza generazione conosce ogni dettaglio sulla macchina del pizzo. La raccolta delle estorsione resta capillare. Pagano quasi tutti e denunciano in pochissimi. È un lavoro sporco, affidato a squadrette di picciotti che mettono ancora paura. Tra un’estorsione e un’altra Guerrera trovava il tempo per frenare la concorrenza sleale di un rosticciere che incideva negativamente sulla vendita dei polli arrosto del figlio.

Poi, ci sono i pentiti di un altro potente mandamento, quello di Porta Nuova. Gente come Francesco Chiarello e Danilo Gravagna, pure loro, conoscono bene storie di pizzo e droga, visto che con la droga Cosa nostra è tornata in affari. Delle faccende regolate con il piombo sanno qualcosa, ma non quello che servirebbe. A Palermo, negli ultimi anni, gli omicidi sono stati eseguiti in maniera chirurgica. Giuseppe Di Giacomo alla Zisa, Francesco Nangano a Brancaccio, Peppuccio Calascibetta a Santa Maria del Gesù: i pentiti non hanno contribuito, almeno finora, a individuare mandanti ed esecutori dei delitti. Sì, hanno descritto i contrasti nell’ambito del quale sono maturati, ma non hanno offerto letture decodificate. E il lavoro degli investigatori, obbligati a indagini all’antica, si fa difficile. Prendete la vicenda del povero Enzo Fragalà: un penalista del suo prestigio massacrato a bastonate sotto il proprio studio e i pentiti nulla sanno.

Quanto accaduto a Bagheria e dintorni è lo specchio dei tempi. In circolazione non ci sono più i mafiosi di una volta, neppure lì, e cioè quelli che contribuirono ad una buona fetta della lunghissima latitanza di Bernardo Provenzano. I clan hanno provato a riorganizzarsi, ma sono stati stroncati dagli investigatori grazie anche ad una cascata di collaboratori di giustizia. Gente come Sergio Flamia, Antonio Zarcone e Benito Morsicato hanno consentito di fotografare le cosche locali, dai gradi più alti alla manovalanza. A Palermo, invece, i pentiti di terza generazione sembrano non avere avuto accesso alle decisioni importanti. Non sanno nulla, o quasi, del passato. E per quanto riguarda il presente sembrano essere stati sono stati confinati nel limbo degli affari sporchi, della droga e del racket. Il risultato è che non ci sono sfuggiti i boss di un tempo – sono tutti in galera o morti ammazzati -, ma forse una buona parte dei loro soldi sì. Montagne di soldi, ormai ripuliti in una miriade di attività lecite e praticamente impossibili da scovare.


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