PALERMO – Doveva essere una mangiata e invece fu una carneficina. Non bastò neppure l’acido che si erano portati dietro per sciogliere i corpi del boss di Partanna Mondello, don Saro Riccobono, e dei suoi fidati galoppini Salvatore Micalizzi, Vincenzo Cannella e Carlo Savoca.
Faceva freddo quel 30 novembre del 1982. Fredda era l’acqua del torrente che scorreva di fianco alla villa della riunione, in contrada Dammusi, nelle campagne di San Giuseppe Jato. La bassa temperature rallentò l’azione corrosiva dell’acido. Che era maledettamente poco, anche perché si aggiunse l’incombenza di sbarazzarsi di un altro cadavere, quello di Salvatore Scaglione, boss della Noce, trasportato a San Giuseppe Jato dopo essere stato attirato in trappola a Palermo dai Ganci. Ne uccisero quattordici in un solo giorno. Totò Riina era sempre più il signore della città e dell’intera Cosa nostra.
Che illuso era stato don Saro. Credeva di farla franca tradendo i palermitani e gettandosi tra le braccia dei corleonesi. Dentro quei fusti di acido si consumava la sua macabra parola. Da traditore graziato divenne perdente, come tutte le altre vittime della carneficina di Riina e compagni. Lo chiamavano il terrorista, pronto com’era a spargere sangue. Parlava poco, agiva molto e, come ha stabilito una sentenza definitiva, godeva delle spifferate del superpoliziotto Bruno Contrada. L’appellativo gli era stato affibbiato da Pippo Calò, capomafia di Porta Nuova, e dal suo grande amico Stefano Bontate, il principe di Villagrazia con cui don Saro aveva fatto soldi a palate con la droga. Erano gli anni in cui il pericolo corleonese era stato sottovalutato dai palermitani. Bontate, come avrebbe raccontato anni dopo il suo braccio destro e pentito Gaetano Grado, guardava con spocchia Riina. “Ma dove deve arrivare stu peri incritatu”, diceva. Riina altro non era che un “cafone che quando è sceso da Corleone – ricordava Grado -. Portava ancora gli scarponi dei pecorai con i chiodi e l’ho tenuto cinque anni latitante io. Ma sono bestie, animali tra loro, anche fra loro familiari”. Che detto da uno che ha collezionato omicidi su omicidi era già una stortura.
All’inizio erano tutti una cosa. Si sentivano onnipotenti. E come Dio onnipotente sceglievano chi dovesse vivere e, soprattutto, chi dovesse morire. Erano gli anni in cui si moriva pure per avere fatto casino al ristorante. Alfredo Dispensa e Paolo Morana era due ragazzetti appena ventenni. Al rimprovero dei boss che li invitarono a comportarsi da “persone civili”, Morana “si sbottona la giacca e mi fa vedere che aveva due revolver addosso… – raccontò Grado – gli dico: senti ragazzino questi revolver che c’hai uno te lo metti in bocca e l’altro te lo ficchi nel di dietro… mi alzo e telefono da Pietro Vernengo e gli dico: senti, piglia qualcuno e venite subito qui, venite preparati.” Iniziò la caccia: “Me ne vado in una mia proprietà a Santa Maria di Gesù, c’era pure Riina che aspettava me… entriamo dentro la cava e c’erano Stefano Giaconia, Totò Riina, Salvatore Micalizzi, Saro Riccobono, Franco Mafara, Antonino La Rosa. Rivolgendomi a Riina, gli dico: Alfredo questo è il tuo medico… Riccobono piglia la corda e gliela mette al collo… sono stati strangolati e seppelliti dove c’è la chiesa di San Ciro Maredolce dove stavano facendo l’autostrada”.
A volte don Saro non si sporcava neppure le mani. Come quando fu deciso di ammazzare il maresciallo della guardie carcerarie dell’Ucciardone, Calogero Di Bona. “… quasi quasi si facevano sempre da Tatuneddu Liga – raccontarono i pentiti – perché poi lui gli scioglieva nell’acido…”. Oppure i morti li infilavano dentro “il forno di Tatuneddu Liga… dov’è che lui faceva il pane…”. Per il delitto Di Bona Liga è stato condannato all’ergastolo assieme a Salvatore Lo Piccolo che prima di diventare il capomafia e barone di San Lorenzo faceva l’autista a Riccobono.
L’avanzata dei croleonesi era iniziata e sarebbe stata inesorabile. E venne il giorno in cui Riccobono voltò le spalle a Bontate, assassinato il 23 aprile del 1981. I picciotti di Bontate furono trucidati uno dopo l’altro. Uno di loro, Emanuele D’Agostino, cercò protezione a casa di Riccobono. Una scelta che accelerò la sua fine. Prima di ammazzarlo don Saro ricevette una preziosa confidenza da D’Agostino. Se Riina non avesse ammazzato Bontate, Bontate avrebbe ammazzato Riina. Riccobono si presentò con lo scalpo di D’Agostino e con la notizia davanti alla commissione di Cosa nostra. Offrì ai corleonesi la prova della sua fedeltà e una legittimazione ex post alla scelta di Riina di sbarazzarsi sia di Bontate che di Totuccio Inzerillo.
Poteva mai uno come Riina allearsi con un inaffidabile traditore quale si era dimostrato Saro Riccobono? Alla mangiata del 30 novembre arrivò la risposta. “Cibo abbondante, vino di qualità, grande cortesia e cordialità. Anche chi è guardingo, come Riccobono, si rilassa”: l’epilogo della vita di don Saro la conosciamo attraverso il racconto dei pentiti Gaspare Mutolo, Balduccio Di Maggio Giovanni Brusca. Riccobono rilassato lo era davvero, si accomodò in poltrona per la pennichella. Giuseppe Gambino u tignusu, Antonino Madonia e Pino Greco Scarpuzzedda lo presero alle spalle: “Saruzzu, a to’ storia finisci ccà’ . La mattanza non si limitò ai quattro presenti a San Giuseppe. “Ne ammazzammo quattordici in un giorno”, rivelerà poi Brusca. A Partanna Mondello cambiavano i capi. Finiva l’era di Riccobono. Gli subentrarono i Madonia. Il mandamento veniva spostato da Partanna Mondello a Resuttana.