ROMA – Nessuna illegittimità nella procedura e negli atti che nel maggio dello scorso anno portarono allo scioglimento del Comune di Maniace (Catania) per presunte infiltrazioni della criminalità organizzata nella vita amministrativa del centro situato nel Parco regionale dei Nebrodi. L’ha deciso il Tar del Lazio con una sentenza con la quale ha respinto un ricorso proposto dall’ex sindaco Antonino Cantali, insieme con l’ex Presidente del Consiglio comunale e gli ex assessori.
“Ricorso infondato”
I ricorrenti, con un unico motivo censuravano tutti gli atti che portarono allo scioglimento, contestando i singoli accertamenti compiuti e la lettura data ai vari accadimenti da parte dell’Amministrazione. Il Tar in sentenza, dopo aver tratteggiato il quadro normativo applicabile alla vicenda, ha ritenuto il ricorso infondato. “Esaminando la relazione della commissione d’indagine, che si compone di ben 99 pagine di specifiche risultanze istruttorie – si legge nel provvedimento – risulta un quadro di insieme corposo che stride con il tentativo della parte ricorrente di minimizzarlo, parcellizzandone i contenuti ed estrapolandone soltanto alcuni.
La commissione di indagine descrive il contesto criminale di Maniace come strettamente legato allo scenario criminale catanese di tipo mafioso che ha riflessi su tutta la parte orientale dell’isola, risultando caratterizzato dalla interazione, con dinamiche prevalentemente non violente, di consorterie riconducibili a ‘Cosa nostra’”.
“Censure frammentarie”
Il Tar ha poi osservato che “le deboli e frammentarie censure dei ricorrenti non sono in grado di inficiare la solidità della ricostruzione operata dall’Amministrazione”; e “dal quadro indiziario raccolto in sede di indagine è emerso un generale stato di precaria funzionalità dell’Ente che i rilievi dei ricorrenti non sono riusciti altrimenti a spiegare, venendo in luce una legalità ‘debole’, in un contesto caratterizzato dalla pervasiva presenza della malavita organizzata”. Il provvedimento di scioglimento del Comune impugnato, quindi, per i giudici “non solo risponde ai criteri individuati dalla giurisprudenza, ma l’intervento dissolutorio risulta poggiare su elementi concreti, univoci e rilevanti dai quali emerge un quadro indiziario grave, adeguatamente trasfuso nella motivazione degli atti impugnati”. (ANSA).