CATANIA – Si respirava un clima di piombo nella cupola di Cosa Nostra, le cimici dei carabinieri del Ros lavoravano a pieno regime. La posta in gioco era altissima, si doveva eleggere il nuovo “capo provinciale” della cosca dei Santapaola. E le dispute a riguardo non si placavano, specie dopo i contrasti nati per la gestione del territorio di Raddusa. Tensioni che sono poi culminate con il duplice efferato omicidio di Cutrona e Torrisi. Lo scacchiere di Cosa nostra vedeva ora contrapposte le più pericolose famiglie mafiose a partire da quelle che operano nella zona del calatino (Caltagirone e Ramacca) capeggiate dal boss Seminara, ai Santapaola di Catania e al clan storicamente legato ai Nardo operante a Lentini fino ad alcune aree di Siracusa. Area quest’ultima di enorme rilevanza per il settore del controllo degli appalti e della “gestione” degli imprenditori da parte dei clan. A fare luce sulle scosse di Cosa nostra è stato il processo che ha visto in primo piano i pubblici ministeri Antonino Fanara e Agata Santonocito, sotto il coordinamento del procuratore Capo Carmelo Zuccaro.
Per prima cosa serviva fare il punto sugli antichi equilibri e sulla affermazione dei nuovi assetti tra le famiglie. Per riuscirci ciascuno dava il massimo. L’obiettivo era dimostrare di saper fare il mafioso meglio dell’altro, di avere la stoffa per prendere in mano le redini della cupola. Il peggiore trionfava. Ma l’elezione del nuovo rappresentante provinciale si complicava proprio a causa dei difficili rapporti interpersonali e delle gelosie esistenti tra i vari esponenti dei clan. Quello catanese dei Santapaola si riconfermava il più avido di primeggiare.
Ecco perché erano così importanti i summit fra gli esponenti dei clan che ad un certo punto si organizzano in una sorta di triumvirato. Le famiglie per forza di cose dovevano riunirsi per confrontarsi “e ottenere – scrive il pm Fanara nella requisitoria – un ruolo di preminenza all’interno dell’organizzazione”, ma anche per pacificare i contrasti esistenti tra i catanesi e calatini. I conflitti insorgevano quasi sempre per la suddivisione del denaro derivante dalle attività estorsive.
ALFONSO FIAMMETTA – Scalpitava in carcere Alfonso Fiammetta, condannato a 10 anni e 8 mesi. Neppure la galera sarebbe riuscita a redimerlo, come spesso accade tra i mafiosi. Alfonso avrebbe pensato piuttosto che il periodo di detenzione lo aveva tenuto lontano dagli “affari” e fatto uscire dalla scena criminale. Dopo la scarcerazione, secondo le ipotesi dei Pm, il suo obiettivo era quello di tornare di nuovo in pista e riprendere in mano gli interessi della cosca: estorsioni, droga e proventi ricavati dalle macchinette di giochi. E riacquisire soprattutto il potere a Palagonia, nella sua città. Ma gli assetti nel frattempo erano cambiati. Se, infatti, fino al 2010 aveva partecipato attivamente al clan di cosa nostra catanese scorrendo a braccetto con l’ex capo provinciale Vincenzo Aiello, nel 2015, quando esce dal carcere per espiare la sua condanna ai domiciliari, la gestione del territorio era ormai nelle mani di Salvatore Di Benedetto, un picciotto del boss Turi Seminara. Ma il suo ritorno procurò comunque una certa inquietudine fra i soldati del clan calatino. L’evento, come spiega il pm Fanara nella sua requisitoria, destabilizzava “i nuovi equilibri mafiosi della zona” (Palagonia e Ramacca) che fino ad allora erano stati “pacificamente” gestiti dai due gregari Di Benedetto e Pappalardo in accordo con i fratelli Oliva. La sua scarcerazione avveniva in un momento già difficile per la vita di cosa nostra catanese. La cupola era divisa da una guerra interna che vedeva ancora una volta contrapposti il clan calatino e quello catanese per l’assegnazione del controllo sugli appalti. Con il ritorno di Fiammetta, tornavano inoltre a galla vecchi i rancori legati a quanto accaduto negli anni precedenti, proprio grazie all’opera di Aiello di cui Alfonso era all’epoca braccio destro. Ma ora si doveva nuovamente decidere chi doveva comandare. Di questo argomento si era parlato nel corso di svariati summit. Fino a quando, il rientro a Palagonia di Fiammetta e la sua vicinanza con Amantea (vice dei Santapaola a Paternò) e con l’imprenditore Mirenna (paternese), determinarono l’estromissione definitiva Di Benedetto dal controllo della zona. E ciò accadde anche per il volere del boss Seminara che (forse per placare le tensioni) nominava adesso al suo posto proprio Mirenna, il quale avrebbe dovuto fare anche da “tutor” alla nuova leva paternese Cosimo Ferlito. Fiammetta aveva, così, ripreso nel 2016 il suo ruolo nel territorio di competenza per conto del clan catanese; tale circostanza, com’era prevedibile, scatenò l’odio nei suoi confronti da parte di Di Benedetto che adesso assetato di vendetta pianificava di ucciderlo. Specie dopo l’attentato subito, che il picciotto riteneva fosse stato commissionato proprio dal Fiammetta e da Pippo Floridia, ossia il boss dei Nardo Lentini legato ad Alfonso da una solida amicizia. “Certo…ma tutte cose sono partite per quel cazzo di Alfonso…di Alfonso..perchè tutto il guaio è partito da là…tutta questa tragedia è partita da là”. Ma l’agguato a Fiammetta è poi sfumato.