I giudici che amiamo - Live Sicilia

I giudici che amiamo

Li amiamo come i figli amano i padri di cui posseggono appena qualche traccia: una foto stinta, un bigliettino dimenticato in una giacca, una vestaglia rattoppata, l'impronta delle mani sul ripiano di una scrivania. Eppure, ancora oggi, sono rimasti soli.

Cronaca di una solitudine
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Quei giudici che abbiamo amato, che non smettiamo di amare, non esistono più. Sono annegati – migranti dell’altrui verità – scivolando in una retorica che è perfetta e sciasciana impostura. Ridotti a didascalie del marketing, come la faccia corrucciata di Che Guevara sulle T-shirt.

Li amiamo – Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – come i figli amano i padri, di cui posseggono appena qualche traccia: una foto stinta, un bigliettino dimenticato in una giacca, una vestaglia rattoppata, l’impronta delle mani sul ripiano di una scrivania. Li amiamo perché erano soli, nei giorni della loro lotta, sputacchiati soprattutto dai cosiddetti amici che li accoglievano con sorrisi da squali e – dietro la finzione dell’amicizia – ne facevano strame. Non smettiamo di amarli oggi, perché i giudici Falcone e Borsellino sono ancora più soli nel chiasso: il marchio più sincero della solitudine.

Metti una mattina a Palermo. Via Libertà chiusa, in un baluginare di riflessi, tra camionette della polizia e occhiali scuri. Metti un corteo che le pupille focalizzano a poco a poco. Striscioni per Rita Atria, valorosa testimone di giustizia. Cori per Nino Di Matteo, onesto magistrato. In sottofondo si avverte qualcosa che non sgorga dalla passione delle persone in buonafede che a quella manifestazione partecipano. Si percepisce l’ombra di un indottrinamento. Ha a che fare col marketing, con le T-shirt da scaffale unico delle coscienze.

“Siamo tutti Nino Di Matteo”, è il grido che scaturisce dalle bocche innocenti, mentre altri reggono vessilli con le foto di ‘Giovanni e Paolo’ (nota: una confidenza post-stragi ha avvicinato quegli uomini severi al sentimento popolare, infatti sono passati dall’isolamento all’uso che si fa del nome tra amici). Ed è un grido sacrosanto. Nessun giudice che compia onestamente il suo lavoro deve più rimanere estraneo alla sua gente e alla sua città.

Ma c’è un’altra eco non benevola, un riverbero che pare di udire nella conca di via Libertà svuotata dalle macchine: su un ex inquilino del Quirinale, sullo Stato, sul Csm che ha preso le sue decisioni per la Procura Nazionale Antimafia. Ed è qui che la ribellione si trasforma in retorica, in marketing dell’antimafia delle certezze, inchiodata ai suoi pregiudizi. Ed è qui che la solidarietà per il giudice Nino prende le sembianze del rancore, dell’illegittimo sospetto, della verità che non si cerca, perché si pretende costruita su misura; altrimenti non piace e dunque – per articolo di fede – non può essere vera.

Non smettiamo di amare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, grandi uomini severi e ironici, assassinati in una nuvola di silenzio e omissioni, divorati prima dai cosiddetti amici e poi dai nemici, annegati nel marketing e nell’indifferenza. Ogni giorno cerchiamo di ricordare quello che ci hanno lasciato, rintracciando bigliettini stinti nella giacca sdrucita della buona coscienza. Vogliamo bene a Nino Di Matteo, sicuramente estraneo all’estremismo di certi suoi sostenitori. Appoggiamo il diritto-dovere dei siciliani di stargli accanto. Ma c’è qualcosa che non torna dietro la veste pura dell’innocenza; lì dove traspare il rattoppo dell’inganno.


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