In questo tempo di corvi e lupi, più acuto è il rimpianto per Marzio Tricoli, ucciso dieci anni fa da una caldaia. Il rimpianto per un politico onesto e intelligente, per un uomo. Non sappiamo dove sarebbe oggi. Non sappiamo dire se nel corso del tempo avrebbe perso il suo rigore, come può capitare alle persone perbene, quando decidono di scendere in campo e bere il redditizio ma amaro calice del consenso. Sappiamo che ai suoi funerali, la chiesa era gremita. Sul sagrato si confondevano le lacrime degli alti papaveri e della minuta gente perbene. L’idraulico piangeva con l’onorevole. Ed era un’emozione sincera, di cruenta perdita.
Marzio Tricoli, figlio del galantuomo Pippo, era nato e cresciuto nella culla della destra migliore. La definì Montanelli con una sintesi perfetta: “La destra che amo – citiamo a memoria – non è un’ideologia, è un codice di comportamento”. Un manuale per l’uso della vita pubblica e delle istituzioni, un vademecum sobrio, improntato alla decenza. Scrisse ancora Montanelli, nell’ultimo spicchio della sua esperienza, quando lo accusarono addirittura di essere diventato un ‘compagno’: “Noi non siamo contro la destra, ma contro la sua contraffazione”. Il ricordo di Marzio Tricoli restituisce a tutti l’originaria collocazione di una ispirazione nobile e autentica, apprezzata anche dagli avversari. Nell’ora dolorosa della sua morte, il commento di Francesco Forgione, un comunista situato all’opposto nella radiografia del pensiero, fu lieve e rispettoso: “E’ un giorno triste per tutta l’Assemblea regionale siciliana, con Marzio Tricoli scompare un parlamentare serio e impegnato, un avversario orgoglioso e leale”.
Non possiamo prevedere come sarebbe stato un futuro che non c’è mai stato. Cosa sarebbe cresciuta la Sicilia con Marzio. Possiamo ricordarlo e rattristarci perché non c’è più. Possiamo abbracciare sua moglie, figli, la famiglia, i suoi amici. E tutti coloro che, come noi, senza conoscerlo di persona, gli hanno voluto bene.