C’è qualcosa che non riusciamo a cogliere, il disegno che arriva in forma di rivelazione, quando unisci tutti i puntini. Sappiamo molto. Conosciamo i dettagli della cronaca. Siamo bersagliati da foto di vittime e carnefici. La visione completa, però, ci manca. Chiara soltanto è la domanda di partenza: perché i maschi uccidono le donne? Non si tratta di episodi sporadici, siamo davanti a una categoria dell’omicidio che maldestramente, in un soprassalto di cecità intellettuale, è stata ribattezzata “femminicidio”. E possiamo tralasciare l’inganno, ma resta il punto interrogativo. Possiamo gettare via la sporcizia della definizione, tenendo fermi dolore e discrimine: perché i maschi odiano le donne?
L’odio trabocca. E’ la traccia nella diversità delle fattispecie. Un disumano odio c’è – per venire alla tragedia più recente – nel furore con cui Mirko Lena ha massacrato Cettina e sua madre Angela a San Giovanni Gemini. Un rancore universale, incoercibile, inarrestabile, vibra nel sottotesto della strage dei maschi che odiano le donne. Forse già le parole contengono una risposta: le odiano perché sono appunto donne, lo specchio con cui è impossibile confrontarsi e non sentirsi nudi, se uno è maschio e non riesce a guarire dagli effetti collaterali del suo stato.
Ogni male, come ogni bene, possiede vie proprie che lo conducono a destinazione. In tutte le storie di nera esistono ‘ragioni’ di contesto che non giustificano, né autorizzano la leggerezza ai danni della vittima, ma compongono un sentiero di molliche di pane nel bosco, per individuare le cause di superficie. Sullo sfondo c’è il disegno, la fisionomia dei puntini riunificati. Cosa appare? Si intravvedono uomini confusi, che non sanno bene cosa sono e cosa potrebbero diventare. Nello smarrimento, preferiscono cercare riparo all’interno di un luogo protetto. Scelgono di essere maschi, di rifarsi alla violenza dei progenitori, di abitare il passato con le sue consolanti sconcezze. Avvertono la contraddizione e non riescono a farne a meno.
In fondo – lo può magari scrivere un maschio contemporaneo che si sforza di imparare la sintassi corretta delle relazioni umane – non siamo mai stati uomini veri. Siamo cresciuti in famiglie con mamme e sorelle dedicate alla prassi delle faccende domestiche, per un decreto non si sa da chi stabilito. Siamo stati i figli coccolati – a prescindere dal caso personale, ché ognuno conosce i suoi, qui si tratta di un elemento generico – di genitori premurosi e distratti. Disposti a concedere totale libertà, purché non fossero richiesti dialogo e ammaestramento. Padri e madri sessantottini che hanno distrutto la famiglia per un’idiozia ideologica. Madri e padri senza bussole di riferimento, capaci appena di incatenare e frustare per complesso di colpa, perché non c’è un manuale della genitorialità perfetta e la scansione economica del tempo vicino non consente il lusso della pazienza, la dolcezza della piantina che lentamente cresce.
Dietro la patina di un illuminismo d’appendice, abbiamo appreso che il “masculo” ha la signoria, mentre la “fimmina” deve stare al suo posto ed è, se non inferiore, marginale nella creazione declinata alla siciliana. Solo che le “fimmine”, le femmine, hanno messo le ali delle donne. E ci hanno spiazzato.
Lì fuori è pieno di donne che non rinunciano al titolo di femmine. Né pensano di doversi amputare qualcosa. Creature che vivono insieme “la gioia del culo e del cuore”, per ricantarla con Roberto Vecchioni. E ci aggiungono il cervello, la bellezza, e – certo – la cattiveria, la perfidia (basta con la bugia delle donne-femmine angelicate), tutto il repertorio di persone piene, pienamente convinte di esserci. Mentre sferruzzavano, o cucinavano, o passavano lo straccio, le femmine-donne hanno tramato la cospirazione dell’intelligenza. Sono cresciute come piantine robuste. Noi, invece, siamo rimasti laggiù, sul divano, incatenati ai gol della domenica.
Ecco perché abbiamo paura. Nella nostra parzialità di maschi, non sopportiamo la visione di un disegno intero, di una compiutezza sconosciuta. La fisiologia del terrore è la prepotenza quotidiana, sublimata dalla finzione del rispetto. La patologia apre la botola del delitto, del gesto efferato, come unica risposta allo spiazzamento, all’afasia e alla disperazione. E’ il modo criminale per rompere lo specchio, con l’illusione di uccidere anche quello che nel riflesso ci racconta il fallimento, il non essere uomini.
Ci sono poi donne che odiano le donne in perfetta buonafede. Hanno inventato il “femminicidio”, orrendo termine, per mimare un conato di ribellione. In un solo colpo hanno ridotto tutto il dolore a titolo di un rigo sul giornale, a frenesia da comunicato che non distingue, non spiega e non racconta. Eppure ci sarebbe troppo da raccontare. Dovremmo ricordarle, ognuna col suo viso, le donne sacrificate sull’altare del non uomo, non mortificarle nel rito dell’indignazione a comando. Dovremmo averlo imparato ormai che ogni storia ha il suo nome e il suo cognome. Che una persona c’è sempre, c’è sempre stata con la sua singolarità. O non è mai esistita.