Messina Denaro: "Io criminale onesto, latitante a Palermo" - Live Sicilia

Messina Denaro: “Io criminale onesto, latitante a Palermo”

Cosa ha detto il padrino trapanese ai pm

PALERMO – “Ascolti, io ci saranno cose in cui non rispondo, cose in cui rispondo e spiegherò il motivo per cui rispondo e cose che spiegherò il motivo per cui non voglio rispondere”. Il 13 febbraio scorso Matteo Messina Denaro è seduto davanti al procuratore Maurizio De Lucia e all’aggiunto Paolo Guido. È passato un mese dal suo arresto a Palermo. La condizione del padrino trapanese è cambiata, ma continua a mostrarsi sicuro di sé. Il verbale è e resterà – ha chiarito subito che non ha alcuna intenzione di pentirsi – la summa del suo pensiero mafioso. Ha spesso un atteggiamento di sfida nei confronti dei magistrati, seppur mantenga un linguaggio misurato.

“La mia vita avventurosa…”

La prima domanda riguarda la pistola che è stata trovata nella casa covo di Campobello di Mazara: “Quest’arma voi non potete risalire a niente perché è fatta bene la punzonatura che non si vede niente… 20 anni fa me l’hanno portata dall’estero… dal Belgio… la mia vita non è che è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa… molto movimentata… per me comprarmi una pistola non è che era
significativamente importante segnarmi la data”.

“Non sono mafioso”

Si comincia dall’inizio. “Lei è uomo d’onore?”. Risposta: “No, io mi sento uomo d’onore non come mafioso”. Nega di essere stato “formalmente combinato” (“Io? Completamente”), e conosce Cosa Nostra “solo dai giornali”. “Non lo so, magari ci facevo qualche affare – aggiunge – e non sapevo che era Cosa nostra però”. È stato condannato più volte all’ergastolo, eppure dice che con le stragi e gli omicidi “non c’entro niente, nella maniera più assoluta, poi mi possono accusare qualsiasi cosa io che ci posso fare alla fin fine”. Non si spinge fino a sostenere di essere innocente (“no, non voglio dire questo, sarebbe assurdo”), ma “in tutti i processi di reati non c’è mai stato riscontro oggettivo”.
È categorico: “Non ho commesso omicidi”.

Le lettere a Provenzano

Traffico di stupefacenti? “No, vivevo bene di mio, di famiglia”. Estorsioni? “No, non ne faccio di queste cose”. Ha mai conosciuto Bernardo Provenzano? “Dalla Tv”. Gli ha scritto delle “lettere, ma “non l’ho mai conosciuto visivamente. Certo che sapevo chi era, ci mancherebbe”. Con il boss corleonese ha intrattenuto una fitta corrispondenza “perché quando si fa un certo tipo di vita, poi arrivato ad un dato
momento, ci dobbiamo incontrare perché io latitante accusato di mafia lui latitante accusato di mafia dove si va… io chiedevo favori a lui se me li poteva fare e lui chiedeva favori a me se glieli potevo fare”. Come quando “io cercavo di fare riavere dei soldi ad un amico mio paesano mio, Grigoli Giuseppe (re della grande distribuzione, ndr) che glieli avevano rubati”. Come comunicavano? “I canali li conosciamo non c’è bisogno di essere affiliato. Se io cerco una persona normale mi viene difficile ma se cerco un latitante come me ci troviamo. Abbiamo i nostri sistemi”. E cioè i “pizzini”.

“Mio padre commerciante d’arte”

Si firmava “Alessio” senza un motivo specifico, a differenza del nome “Svetonio” usato nel carteggio con Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano assoldato dai servizi segreti per stanare il latitante: “Io sono appassionato di storia antica… mio padre era un mercante d’arte”. Scavavano di notte, a Selinunte, e in altri siti archeologici, “con il piede coprivano e poi la notte ci ritornavano a prendersele… queste cose li comprava mio padre che poi venivano vendute in Svizzera e poi arrivavano dalla Svizzera dovunque in Arabia, negli Emirati Arabi, in America noi vedevamo cose che passavano da mio padre nei musei americani non so come”. A volte dietro alcuni capolavori si nascondevano delle truffe: “Ci sono dei vasi di ceramica che si chiamano lekythos per esempio che li trovavano senza figure… allora in Sicilia c’è un luogo Centuripe, tra Enna e Catania… qualcuno che sa mettere le figure… il vaso senza figura ai tempi andava dai 2 ai 3 milioni di lire se ci mettiamo le figure diventa 20, 30 milioni, 40 milioni loro cosa facevano a Centuripe gli facevano i disegni e li sotterravano dopo 4, 5 anni li toglievano e non c’era più”. Di soldi con il padre ne ha fatti parecchi anche con le monete di argento: “… con mio padre poi li abbiamo investiti… in quello che li abbiamo investiti molto ve lo siete presi non lei, come Stato, il resto che non vi siete preso un po era conservato per viverci noi noi siamo una famiglia di circa 30 persone la metà in carcere, io latitante, aerei avvocati ce ne volevano soldi quindi se ne andavano”.

La corrispondenza con Vaccarino

Nei confronti di Vaccarino è rancoroso, proprio come era emerso dal carteggio. L’ex sindaco lo avrebbe tradito “per soldi perché era sicuro di non essere mai scoperto io invece l’avevo scoperto perché da quello che esce fuori io l’ho scoperto tramite Provenzano, ma non fu così, io l’avevo scoperto prima che lui mi tradiva”. In questo passaggio Messina Denaro apre uno squarcio sulla sua misteriosa latitanza. Spiega che “non ero a Campobello in quell’epoca”. Non dice chi lo aiutava (“non vado a rovinare altre persone”), ma ammette che si nascondeva “a Palermo”.

“Geraci? Sapevo dove viveva…”

Rancore mostra anche nei confronti dell’ex collaboratore di giustizia e gioielliere Francesco Geraci, di recente morto a causa di un tumore. Geraci custodì il “tesoro” di Riina e svelò agli inquirenti la gioventù di Matteo Messina Denaro vissuta tra locali alla moda e belle donne ma anche i dettagli della cosiddetta “trasferta romana” organizzata da Riina per uccidere Giovanni Falcone. “Lui si è fatto pentito, la cosa che mi dava fastidio è che lui arrivava ai processi e diceva che io sono stato il suo calvario – spiega Messina Denaro – la società della gioielleria metà era mia e questa ce l’hanno ancora loro… non è che ha detto allo Stato, signori la metà è sua prendetevela, no se l’è rubata lui”. Poi un dettaglio inquietante: “Io ho sempre saputo dov’era a Bologna ed aveva una gioielleria sempre a Bologna nel centro storico… io non l’ho ucciso e nemmeno l’ho fatto uccidere.. a lui dentro di me l’ho perdonato a prescindere che non sapevo che era morto perché io rispettavo l’amicizia da quando siamo nati”.

“Non faccio la spia”

Come conosceva la località segreta dove viveva il collaboratore? “Strade mie… se lei mi vuole portare a dire che era qualcuno dello Stato… le strade che lo hanno detto a me ovviamente non ve lo posso dire perché significa che usciamo da qua ed andate ad arrestare persone ed io non le faccio queste cose… secondo lei se a me fosse importato ucciderlo o altre cose… la sua famiglia è a Castelvetrano non gli è
successo mai niente perché io dentro la mia testa ho un mio codice comportamentale… mi definisco un criminale onesto… si è rubato i soldi che avevamo investito assieme lui… senza di me sarebbe stato un morto di fame invece era miliardario ma va bene così”.

Il capitolo dei contatti con lo Stato

Altra domanda secca: lei ha avuto amicizie, rapporti con appartenenti alle Istituzioni? “No, no completamente”.


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