PALERMO – Matteo Messina Denaro se ne andava in giro con la carta di identità di un trapanese morto. Almeno fino al 2014. Almeno secondo il pentito il cui cognome resta segreto e che dice di avere appreso le notizie sul latitante da due compagni di cella. Uno è Vincenzo Salpietro, anziano boss di Trabia, e l’altro è Nino Penna, un trentaduenne considerato vicino alla ‘ndrangheta.
Salpietro gli avrebbe detto che sua moglie, Francesca Chiaramonte, era in contatto con una delle sorelle del padrino di Castelvetrano. E da lei avrebbe saputo che Messina Denaro si sarebbe sottoposto a un intervento di chirurgia plastica in Piemonte che lo avrebbe reso quasi irriconoscibile se confrontato con le immagini che di lui posseggono gli investigatori. Le mani d’oro sarebbero quelle di un chirurgo molto noto.
La piste tracciate dal collaboratore di giustizia, che ha pure reso dei verbali alle procure di Genova e Reggio Calabria, non hanno condotto a risultati concreti. Questo non vuol dire che il pentito sia stato ritenuto inattendibile. Anzi, sembra che sia già stato utile per ricostruire la presenza delle ‘ndrine calabresi nel Nord Italia.
Da qui la richiesta di archiviare il caso avanzata dal pubblico ministero Maurizio Agnello e respinta dal gip che ha ordinato al pm di formulare il capo d’imputazione per favoreggiamento aggravato del latitante nei confronti di otto indagati. Che la Procura sia convinta che l’indagine debba essere archiviata lo conferma il ricorso in Cassazione contro la decisione del giudice. La stessa Procura di Palermo sostiene che sia stato violato il diritto di difesa. Avrebbero dovuto essere fissata un’udienza camerale per garantire il contraddittorio fra le parti.