Messina Denaro e l'invito a pentirsi. Il padrino disse: "Mai dire mai"

Messina Denaro e l’invito a pentirsi. E il padrino disse: “Mai dire mai”

Il verbale del boss poco prima di morire

PALERMO – “Noi la invitiamo a riflettere, a cercare un punto di sintesi…”: i pubblici ministeri hanno insistito. Ci sono stati dei momenti in cui è sembrato che potesse aprirsi una breccia nel granitico modo di essere di Matteo Messina Denaro. Altri in cui la chiusura è rimasta totale. Alla fine non ha svelato i suoi segreti, pur facendo riferimento ad esempio ad altri luoghi legati alla sua latitanza e rimasti finora segreti.

“Mai dire mai… ci rifletto… non sono un assolutista”, ha detto il padrino trapanese. Era il 7 luglio e il cancro che lo avrebbe portato alla morte, il 25 settembre successivo, aveva ormai preso il sopravvento. Il verbale dell’interrogatorio è stato depositato dalla Procura di Palermo all’udienza preliminare del processo che vede imputata la maestra e amante del capomafia stragista, Laura Bonafede.

“Pensava di trovare un Rambo”

A L’Aquila per interrogarlo in carcere c’erano il procuratore aggiunto Paolo Guido e i sostituti Gianluca De Leo e Piero Padova. Usavano parole come “collaboratore” o “pentito” ma solo per allontanarle strategicamente dai pensieri di Messina Denaro che non nascondeva la sua sofferenza: “Lei pensava di trovare un Rambo e invece ha visto cosa ha trovato? Niente ha trovato, è una battuta. Mi avete preso per il male, altrimenti non mi prendevate”.

“Schifato” da “certe canaglie”

Ammetteva di essere un mafioso, cosa che aveva negato in altri interrogatori, e si diceva “schifato” da coloro che non hanno i requisiti per esserlo ma venivano presentati come boss. Prendeva le distanze da “certe canaglie”, del passato e del presente di Cosa Nostra, controbatteva su alcune ricostruzioni fatte nei vecchi processi. Anche questo è stato un tasto suonato dai pm: “Ci pensi alla possibilità di dare a tutto il resto del mondo una lettura giusta dal suo punto di vista”.

“Mai dire mai”

Dopo una chiusura (“Non sono interessato, non sono interessato”), ecco un’apertura: “Poi nella vita mai dire mai, intendiamoci però al momento io non sono interessato a sta situazione”. “Ci riletta”, è l’invito: “Questo sì dottore Guido, veda che io non sono mai stato un assolutista, non è che perché io dico una cosa o no ad una cosa sarà sempre quella. Io nella mia vita ho cambiato tante volte idee però con delle basi solide”.

Ondivago lo era stato anche in altre occasioni, dando l’impressione di volere condurre la narrazione. Calcolatore, anche in questo. Solo lui conosce la verità, se stesse fingendo o se davvero volesse aprirsi per mettere qualcosa sul piatto della bilancia che pendeva decisamente dalla sua parte: otto mesi di carcere dopo 30 anni di latitanza e di lacrime che altri, non lui, hanno versato per i delitti e le stragi a cui ha partecipato.

“Mi avete distrutto una famiglia”

Ha dato l’impressione di non perdere il controllo. Solo una volta, forse, quando ha ricordato che gli hanno arrestato tutta la famiglia. Un errore, secondo lui, addirittura una punizione, una vendetta nei suo confronti: “Io so soltanto una cosa che, però non sto facendo nessun atto di accusa, mi avete distrutto una famiglia. Rasa al suolo ci sono dei sistemi che non vanno… ora sento dire: case distrutte… perché mia mamma che è: latitante o mafiosa? Lei…la legge, lo Stato gli ha distrutto la casa, i mobili fatti a pezzettini. Cioè dove lo volete trovare un dialogo, quando ci sono questi comportamenti?”, dice ai magistrati mostrando un evidente risentimento””. Qui i magistrati lo hanno stoppato.

“Lei deve darci una mano a fare un po’ di chiarezza in questa vita così travagliata che lei ha vissuto, così piena di tante cose, non aiuta solo noi ma aiuta anche se stesso”, sono tornati a insistere i magistrati. Risposta: “Io posso aiutare a chiunque tranne a me stesso, sono alla fine della mia vita, io non sono il tipo di persona che vengo da lei e mi metto a parlare dell’omicidio per rovinare a X, o a Y, non ha senso nel mio modo di… mi spiego?… riflettiamo tutti… ho una famiglia rovinata ma alla fin fine quale colpa ha avuto, io posso avere colpe personali impiccatemi, datemi tutti gli ergastoli che volete ma che la mia famiglia sta pagando da una vita di questo tipo di rapporto con me, perché mi viene sorella mi viene fratello è dura da sopportare veda perché io lo so che non hanno niente…”.

Le stragi

Un lungo passaggio del verbale è dedicato alle stragi del ’92: “Ma ci sono cose, però, che, per esempio, nessuno è mai arrivato, perché a me mi sembra un poco riduttivo dire che a Falcone lo hanno ucciso per la sentenza del maxi processo. Se poi voi siete contenti di ciò, bene venga, sono fatti vostri, ma la base di partenza non è questa…”.

“Quello che sto dicendo è verità… ognuno poi, nella vita… tutti questi, chiamiamoli pentiti, che hanno detto… hanno detto, sì, qualche pezzo di verità – insinuava – gli hanno fatto fare dei processi, va bene; ma ognuno ha portato acqua al suo mulino poi. Poi, se per portare acqua al suo mulino, dicono cose anche che possono coincidere con quello che cercate voi o con quello che interessa a voi, ben venga, giusto?”.

“Voi siete contentati che il giudice Falcone sia stato ucciso, perché ha fatto dare 11 ergastoli? Perché di 11/12 ergastoli si trattava, nel maxi processo, credo, ma credo che questi siano…”, insisteva parlando di moventi complessi che poi, però, non ha spiegato. Messina Denaro ha definito l’attentato di Capaci come la “cosa più importante, quella da dove nasce tutto, le stragi, l’input”. E con fare accusatorio, alludendo al depistaggio delle indagini sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino, ha proseguito: “Perché vi siete fermati a La Barbera, La Barbera era all’apice di qualcosa”, riferendosi all’ex poliziotto ritenuto la mente dell’inquinamento dell’inchiesta che ha portato alla condanna di innocenti.


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