PALERMO – “Quel fango di Falcone”. Una frase che cambiò tutto. Perché sul campo puoi anche sfoderare numeri da campione, tuttavia se con una inaccettabile espressione procuri mortificazione a una delle icone mondiali dell’antimafia, Palermo ti restituisce sdegno, indifferenza, cancella i sogni di domeniche felici e notti gloriose, trascura quelli che un tempo erano progetti da Champions, dimentica la responsabilità di calciare il rigore della speranza contro la Sampdoria con una sola gamba a disposizione. La morale è presto spiegata: le gratificazioni che derivano dalla tua professione, presto o tardi, sono destinate a terminare. Poi rimane l’uomo, con i valori trasmessi dentro e fuori dal rettangolo di gioco. A maggior ragione, se ti assumi l’onere di portare la fascia di capitano al braccio. Non un vezzo da protagonista, ma una responsabilità.
Fabrizio Miccoli ha deciso di lasciare il calcio giocato, uscendo di scena quasi in punta di piedi. La parentesi maltese, nelle fila del Birkirkara abbracciato insieme al compagno di mille avventure Giovanni Tedesco, a chiudere una carriera su ottimi livelli, pur non impedendo al dubbio di insinuarsi tra quello che stato e quel qualcosa in più che poteva essere, considerando le sopraffine capacità messe a disposizione da madre natura. La Juventus, poi il Benfica, partendo dal Casarano. Un astro nascente senza peli sulla lingua, a tal punto da arrivare allo scontro aperto con il Moggi pre-Calciopoli, un personaggio tutt’altro che ininfluente nel variegato panorama di potentati dissolto, forse soltanto in parte, nel 2006. E allora il confino portoghese, in realtà ben presto tramutatosi in dolce avventura. La torcida benfiquista ai piedi di un ragazzotto di 168 centimetri, con la passione per il wrestling e Diego Armando Maradona come punto di riferimento.
Dunque l’arrivo in rosanero. Fabrizio vuole l’Italia e sente nostalgia del sud. Ci sono sfumature fonetiche tra la lingua natia e il palermitano che si sfiorano, sino quasi a uniformarsi. Anche i dettagli apparentemente insignificanti possono mutare il senso di un’avventura. È il Palermo dell’entusiasmo, della voglia di crescere e della possibilità di spendere. Zamparini sposta continuamente l’asticella verso l’alto. Ha un chiodo fisso, il patron: la qualificazione ai preliminari dell’oramai ex Coppa dei Campioni. Summit con Foschi: Miccoli si deve prendere. Rino compie il blitz. Insieme ad Amauri e Cavani si può scrivere la storia. La maglia è quella del Pibe: la dieci. Sarà un’annata a sprazzi, ma i successi sul Milan e nel derby contro il Catania finiscono in mano agli archivisti con il sigillo del Romario del Salento. Palermo è una casa accogliente, si può continuare.
Dopo le reiterate staffette tra Guidolin e Colantuono, sulla panchina rosanero giunge Davide Ballardini. Fabrizio comincia a trascinare il Palermo alla sua maniera, con gol e giocate da professore della sfera di cuoio. Si parla di Champions, si sfiora la Uefa, si rimane a terra. Ma sono, soprattutto, applausi. Si chiude l’ennesimo ciclo, a Zamparini occorre un colpo di scena. Chiama, direttamente dalle falde dell’Etna, l’Uomo Ragno: Walter Zenga abbandona il Liotru per abbracciare il Genio. Qualche uscita a vuoto, se non al limite del gradasso: parla di scudetto e l’Italia risponde ridacchiando. Non può durare. Proprio il match contro il Catania gli costa il posto. Arriva l’allievo di Zeman, un vulcano capace di raffreddarsi nella fontana del Gianicolo dopo un trionfo nel derby romano: Delio Rossi sposa il rosanero. Si comincia con una sconfitta, dopodiché il Palermo vola con Miccoli capitano. Zamparini racconta di un progetto tecnico destinato a durare, la Champions questa volta è veramente a un passo. La spunterà la Sampdoria. E torniamo a quel rigore calciato in condizioni precarie.
Pochi minuti dopo giunge l’ineluttabile resa, per una lesione parziale al legamento crociato del ginocchio destro che lo terrà fuori per alcuni mesi. Nel frattempo spunta una proposta milionaria, con tanto di fax, del Birmingham. Fabrizio dice di no e i tifosi si stringono intorno al loro leader, anche se qualcuno getta ombre e parla di offerta presunta. Al rientro in campo le gerarchie sono cambiate, in sua assenza Javier Pastore si è caricato la squadra sulle spalle portandola sino alla finale di Coppa Italia contro l’Inter. Una partita che il talento di Nardò vorrebbe giocare a tutti i costi. In conferenza stampa ci scherza su, Rossi lo manda in panchina inserendolo a inizio ripresa, i reduci del Triplete hanno quel quid in più di classe ed esperienza e, pur non disputando la gara della vita, si prendono la Coppa. Miccoli scoppia in lacrime e saluta i quarantamila tifosi rosanero accorsi all’Olimpico di Roma. L’addio sembra scontato, invece il rapporto con il Palermo proseguirà per altre due stagioni. La prima brillante, con una salvezza strappata dalle grinfie della diffidenza a suon di perle. La seconda mediocre, iniziata con un gol impossibile da centrocampo al Chievo e terminata con una mesta retrocessione.
Da quel momento comincia l’inferno. L’indagine della Procura di Palermo, l’accusa di concorso in estorsione. I legami con Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa Antonino. Ancora lacrime, questa volta in conferenza stampa. L’ultima in città. Dopodiché l’esilio. Le prodezze, il record di 81 gol con la maglia rosanero: tutto cancellato da una frase. Il ritorno in patria, nella sua Lecce. Dai fasti della Serie A alle difficoltà della Lega Pro. Un paio di acuti, la promessa di riportare i salentini tra i cadetti. Non mantenuta. La condizione fisica che comincia a non supportare la fantasia di giocate cariche di estro. Il rischio di perdersi nel dedalo di scelte da dovere compiere in fretta. All’improvviso la chance maltese, con apparizione nei preliminari di Europa League con tanto di gol al West Ham. L’ultimo graffio. Prima di compiere l’ultima scelta da calciatore: appendere gli scarpini al chiodo. Ripensando a ciò che è stato, a quanto non andava detto e a quello che poteva essere.