PALERMO – “La collaborazione è impossibile per l’integrale accertamento di fatti e responsabilità, pertanto il collegio ritiene che attualmente il Miceli non possa rendere un’utile collaborazione con la giustizia”.
La vicenda per cui è stato condannato è stata svelata in ogni suo punto. Mimmo Miceli non può offrire ulteriori contributi per la verità già pienamente raggiunta. Si basa su questo principio la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma di consentire a Mimmo Miceli di finire di scontare in affidamento ai servizi sociali la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Il medico chirurgo ed ex assessore alla Sanità del Comune di Palermo ha fatto da trait d’union fra il capomafia di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, e l’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, di cui Miceli è stato il delfino.
Il Tribunale romano è andato in direzione opposta alla Direzione nazionale antimafia. L’11 febbraio scorso la Dna stigmatizzava il fatto che Miceli non avesse mai collaborato con la giustizia per la ricostruzione dei fatti per i quali è stato giudicato. Una mancata collaborazione che, secondo i magistrati antimafia, non aveva consentito “la completa identificazione della catena dei trasmissione delle informazioni a lui pervenute e da lui trasmesse a proposito delle indagini all’epoca in corso nei confronti di Giuseppe Guttadauro”. Affermazioni che cozzano, secondo i giudici di Sorveglianza, con quanto stabilito dalla sentenza della Corte d’appello che nelle motivazioni della condanna del 2011 riteneva chiuso il cerchio investigativo: “La catena di trasmissione è stata completamente accertata”, non ci sono “altre persone rimaste ignote”.
Il resto lo ha fatto la buona condotta tenuta da Miceli in tutti questi anni. Fuori e dentro il carcere, sottolinea il collegio romano presieduto da Marcella Trovato. Dopo avere trascorso un lungo periodo di custodia cautelare Miceli era tornato in libertà in attesa che il processo arrivasse in Cassazione. I giudici che lo hanno affidato ai servizi sociali scrivono che in quel periodo ha ripreso esclusivamente la sua attività di medico chirurgo, ha fatto volontariato e non ha mai violato la sorveglianza speciale che gli era stata imposta. In carcere lo scenario non è cambiato: Miceli ha avuto “una condotta regolare” e ha partecipato alle “attività con la profonda consapevolezza di un atteggiamento critico verso le opzioni devianti del suo passato”. Tutto questo, secondo i giudici, dimostra che Miceli non è più socialmente pericoloso. Da qui la decisione di scarcerarlo. Miceli ha lasciato Rebibbia il 2 luglio scorso. Ha deciso di rimanere a Roma. Della condanna a sei anni e mezzo ne ha già scontato quasi quattro.