"Mio padre, Ciaccio Montalto, era solo. Via dalla Sicilia per le minacce"

“Mio papà, Ciaccio Montalto, era solo. Via dalla Sicilia per le minacce”

Parla la figlia del magistrato ucciso. E racconta l'addio alla Sicilia
L'ANNIVERSARIO
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“Mio padre è stato lasciato solo. Ha lottato ed è stato assassinato. Io non posso credere più nella giustizia”.

Maria Irene Ciaccio Montalto è figlia di Giangiacomo, il giudice, ucciso dalla mafia il 25 gennaio del 1983. Tutti la chiamano Marene, un’onda sonora aggraziata, un fluire che, alla fine, ha avuto la meglio sul dolore aguzzo di uno strappo. Sono passati quarantuno anni. Il dottore Ciaccio Montalto era un magistrato rigoroso, un gentiluomo schivo, uno dei pionieri del contrasto a Cosa nostra. Era un marito e un padre innamorato di sua moglie Marisa e delle sue figlie, Marene, Elena e Silvia. Amava la musica classica. Gli spararono di notte, tra il 24 e il 25 gennaio, il corpo fu ritrovato la mattina dopo. Ha lasciato un vuoto, quest’uomo appartato e affettuoso, che va colmato per quanto possibile con incessante impegno.

Signora Marene, grazie per questa chiacchierata, in giorni talmente densi.
“Sono io che ringrazio chi sostiene la memoria di mio padre. Che è stato dimenticato”.

Perché?
“Una domanda dolorosa che non ha ricevuto ancora risposta e che, forse, mai l’avrà. Papà non meritava l’oblìo, è stato uno dei primi a intraprendere certe indagini molto pericolose. Qualcuno, anche al tribunale di Trapani, ha preferito non vedere”.

Chi?
“Io mi riferisco a un certo contesto. Papà era completamente solo, ma si è esposto lo stesso in prima persona quando non c’era niente che lo sostenesse”.

Girava senza scorta e senza auto blindata. Come mai?
“Non si sentiva così importante. Un suo amico giudice, Mario Almerighi, purtroppo scomparso, ne aveva parlato con lui e glielo aveva chiesto: perché non ti impunti? L’ho saputo dal diretto interessato”.

Quale era stata la risposta di suo padre?
“Che non voleva mettere a rischio le ragazze e i ragazzi di una scorta. Che preferiva affrontare il pericolo da solo”.

Suo padre viene ucciso e voi lasciate la Sicilia qualche mese dopo. Volevate allontanarvi dall’epicentro della sofferenza o temevate per la vostra incolumità?
“Mia madre si è ritrovata sola a quarant’anni, con tre figlie. Le minacce continuavano, con le telefonate anonime, specialmente contro di me, la figlia più grande. Io ho avuto la scorta mai data a papà. A giugno, con la fine delle scuole, mamma ha capito che non potevamo vivere così e siamo andate via, a Parma. La scelta più saggia, compiuta da una donna meravigliosa, pure lei morta troppo presto. Siamo state fortunate ad avere due genitori così”.

Marene Ciaccio Montalto. Nel riquadro a sinistra suo padre Giangiacomo. Nella foto di copertina: la famiglia riunita

La voce della Signora Marene appartiene allo stesso fluire del suo nome. E’ piana e scorre con dolcezza, in mezzo alle lacrime sedimentate dagli anni. Una voce e tante voci. La donna che non si è arresa. La bambina di dodici anni a cui portarono la notizia che suo padre non c’era più.

Come l’avete appreso?
“Papà si era trasferito da Trapani a Valderice, in campagna, per proteggerci. La mattina del 25 gennaio ero a scuola. Venne a prendermi un amico di famiglia che mi accompagnò a casa sua con una scusa. Il giorno dopo tornai a casa nostra e c’erano tanti parenti, persone che non vedevo da tempo. Mamma aveva gli occhi rossi e il viso stravolto. Ci disse: ‘Bambine mie, è successa una cosa tremenda: papà è morto… Mi perdoni se mi commuovo. Sono cose intime’”.

Lei, in una intervista alla Gazzetta di Parma, in occasione della cattura di Messina Denaro, aveva espresso la speranza di sapere tutto, finalmente, nei dettagli.
“In effetti una vera speranza non l’ho mai nutrita. Comunque, con la sua morte, il discorso è chiuso. Pensi che lavoro all’ospedale Maggiore di Parma, dove era ricoverato Totò Riina… Però non c’è mai stato un pentimento in persone che hanno seminato tanti lutti”.

Con suo padre, condivide la passione della musica.
“Papà era verdiano, poi amava molto Puccini. Stravedeva per Beethoven. Un giorno, nel suo studio, mi fece ascoltare il Don Carlos con un magnifico assolo di violoncello. Strumento che ho studiato”.

Signora Marene, lei crede nello Stato e nella giustizia?
“Vorrei tanto. Ma, mio malgrado e secondo la mia esperienza, devo risponderle di no”.


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