Morti o sepolti al 41 bis | La sconfitta dei corleonesi - Live Sicilia

Morti o sepolti al 41 bis | La sconfitta dei corleonesi

Un'altra puntata della mafia dei perdenti.

Mafia, i perdenti
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PALERMO- “Correte, correte”, urlavano nel carcere di Nuoro. Luciano Liggio aveva le pupille dilatate. Infarto. Non ci fu niente da fare. Era il novembre del 1993. Lucianeddu, il papà dei corleonesi, uscì dal carcere dentro una cassa da morto. Lo spedirono come un pacco postale su un volo Alitalia. Destinazione: cimitero di Corleone. I parenti aspettarono che lo seppellissero e i fotografi andassero via prima di mettere un fiore sulla tomba. I cronisti di allora raccontano che sui nastri delle ghirlande c’era scritto “le sorelle e il fratello” e “i nipoti”. Gli ultimi vent’anni li aveva trascorsi in una cella minuscola. Da quando lo avevano arrestato a Milano, mentre faceva finta di essere un uomo qualunque. I maligni (?) dicono che se l’erano venduto. Da allora: sepolto in carcere.

È la sorte dei corleonesi, usciti vittoriosi dalla guerra di mafia degli anni Ottanta, quando i morti erano figurine di un macabro album. Vincenti prima, perdenti poi. Hanno buttato la chiave, ma il prezzo pagato dallo Stato, da tutti noi, è stato altissimo. È andata meglio solo a chi si è fatto pentito. Si è consegnato, cioè, allo Stato come fanno i prigionieri di guerra. Una guerra che, così dice la cronaca, li ha visti soccombere. Per tutti gli altri sempre e solo carcere duro. Proprio come è accaduto ai picciotti che non si staccavano mai dalle calcagna di Liggio. A cominciare da Totò Riina che avrebbe spinto la guerra allo Stato fino all’orrido. Pochi mesi prima della morte di Liggio, in carcere c’era finito pure lui. Oggi è detenuto a Parma. Le sue immagini più recenti sono, in ordine cronologico di apparizione, quelle di un uomo che partecipa alle udienze su una lettiga (sta male, acciacchi della vecchia alla soglia degli 86 anni, oltre a gravi problemi di insufficienza renale) e quella, di poco antecedente, di un uomo che passeggia nel cortile del carcere di Milano Opera con il compagno di cella, Alberto Lorusso, e parla, parla, parla. E le microspie registrano, registrano, registrano. Il capo dei capi è sepolto al 41 bis. Come tutti. A cominciare dagli altri due picciotti di Liggio: Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano. Quest’ultimo è ridotto un vegetale, ma al 41 bis rimane.

E gli alleati dei corleonesi di Palermo e Provincia? Stessa sorte di Riina e Liggio. Il primo a capire che con i viddani era meglio alleasi piuttosto che farsi la guerra era stato Michele Greco. Il papa di Croceverde Giardini è morto in una clinica romana nel 2008. Dal carcere di Rebibbia in un letto di ospedale. Di lui restano memorabili le parole pronunciate in aula al maxi processo: “Auguro a tutti voi la pace, perché la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, perché per il compito che vi aspetta la serenità è la base per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che nostro signore disse a Mosè, le auguro ancora che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita”.

E gli altri? Sono via via finiti tutti in carcere seppelliti dalle condanne: Ciccio Madonia di Resuttana, Nenè Geraci di Partinico, Pippo Calò di Porta Nuova, Pietro Aglieri di Santa Maria di Gesù, Bernardo Brusca di San Giuseppe Jato, Leonardo Greco di Bagheria, Peppino Farinella di San Mauro Castelverde, Raffaele Ganci della Noce, Nino Rotolo di Pagliarelli, Mariano Agate di Mazara del Vallo, Vincenzo Virga di Trapani, Nitto Santapaola di Catania. E l’elenco potrebbe proseguire.

È andata meglio ai pentiti – Francesco Di Carlo, Calogero Ganci, Giovanni Brusca – che hanno goduto delle agevolazioni – dovute ma urticanti – a chi ha aiutato lo Stato a combattere la guerra alla mafia. A mali estremi rimedi estremi. È stato il prezzo da pagare. Come non ricordare i permessi premio di Giovanni Brusca che dice di essere diventato un uomo diverso, non più il crudele sanguinario che strangolava i bambini e li scioglieva nell’acido.

Lo scenario tracciato da tonnellate di carte giudiziarie e migliaia di intercettazioni telefoniche ci dice che i corleonesi hanno perso. Il “fascino” dei vecchi padrini resiste quasi esclusivamente nella testa dei nuovi mafiosi. Che spesso hanno cognomi antichi, come i Lo Bue, i Gariffo o i Grizzaffi.

Sono i parenti e amici di Totò u’ curtu e Binu u’ tratturi che, dalle recenti inchieste, sarebbero tornati a comandare nella sola Corleone. Arroccati in paese, lontano dalla città dove negli anni Ottanta si è consumata la guerra di mafia che ha portato i viddani al potere. Hanno dettato legge per un decennio, ora sono tornati ad essere i paesani di sempre. Paesani e mafiosi, che di tanto in tanto hanno bisogno di spendere il nome di donna Ninetta Bagarella per dirimere questioni di terra e confini. Persino il più corleonese dei non corleonesi, Matteo Messina Denaro, è indaffarato a nascondersi chissà dove, piuttosto che ad esercitare il potere nel territorio. È un fantasma.

 


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