Addio, Professore Palazzo Adriano: le telefonate e i sorrisi

Addio, Professore Palazzo Adriano: le telefonate e i sorrisi

I ricordi personali di un grande medico. Che era un uomo speciale.
LUTTO A PALERMO
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Si poteva prenotare soltanto di mattina presto. Perché il Professore Mario Palazzo Adriano ti dava la sua immensa scienza per pochissimi euro. Ma dovevi telefonargli alle sette, altrimenti nisba. Rispondeva lui stesso, mica un segretario. Scandagliava la situazione e, nove volte su dieci, anche con una folla già in scaletta, diceva: “Venga pure”. Dalla parti della stazione, un bel palazzo di quelli antichi.

Portone grande. Piante nell’atrio. Un ascensore luminoso. Un attaccapanni vecchio stile, all’ingresso, con l’accoglienza di un ragazzo gentile. Un’altra porta che si socchiudeva. E ti sentivi all’esame di scuola media. “Prego, si accomodi”. Uno sguardo era già mezza diagnosi. La visita che seguiva era scrupolosissima. Sempre con un sorriso ironico, come uno che sa già dove mettere le mani e che, dunque, sapeva come accettare la sfida dell’incertezza. Il verdetto, quasi infallibile. Quel ‘quasi’ è dovuto alla teoria delle incognite del nostro essere umani.

Tutta Palermo è passata da quella porticina. Tutti hanno una memoria felice nell’ora del distacco. La dottoressa Tania Lazzaro, già responsabile della Terapia intensiva all’Ospedale dei bambini, dopo il post di commiato su Facebook, ricorda con LiveSicilia.it: “Un medico vero, fino a qualche giorno prima di morire ha visitato una paziente con la solita precisione e dolcezza, a domicilio. Amava la montagna e le lunghe silenziose passeggiate perché era affascinato dal Creato e amava il suo Creatore. Grande fede cristiana: diceva sempre che è meglio subire il male piuttosto che farlo”.

“Ci insegnava in aula la Farmacologia – continua la dottoressa -, ma era arte pura, intrisa di note che provenivano da una grande cultura cui univa tratti ironici. Una volta disse, scherzando: ‘Perché i barbiturici si chiamano così? Perché il chimico che li sintetizzò era innamorato di Barbara, la sua assistente’. Amava l’opera lirica, poteva piangere, ascoltando Puccini”.

Il dottore-scrittore Roberto Garofalo conobbe il Professore prima da studente, anche lui, poi da collega. Racconta: “Una domenica mattina lo vidi passare in una 126, vicino alla stazione; posteggiò lì vicino, quindi scese, borsetta da medico alla mano, sobrietà dell’aspetto, sguardo serio, mai triste. Qualcuno mi disse che lui era solito fare così: visite domiciliari senza parcella; a volte accettando cifre minime, simboliche. Niente Alfetta, niente Biemmevvù. Niente banconote fruscianti, sull’uscio delle case. Niente sguardi altezzosi. Niente ‘dia notizie alla mia segretaria, lei mi riferirà’. L’umiltà dei grandi; l’unica vera; l’unica possibile”.

Caro Professore, grazie di tutto da tutti. Chi scrive – non se la prenda – non ha mai seguito il consiglio di non mangiare troppe arancine. Ora la sentiamo sorridere, perché non possiamo vederla. Ma la sappiamo amico e vicino. Proprio come allora. (rp)


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