PALERMO – Dalla zona di via Emerico Amari, fino a corso Alberto Amedeo e alla Cala. Il caffè veniva imposto a bar, pasticcerie e ristoranti dalla famiglia mafiosa di Porta Nuova, smantellata dall’operazione dei carabinieri che ha portato a 32 arresti. Un business, quello del cosiddetto “oro nero”, che Cosa nostra aveva già fiutato da tempo, quando il “referente” sarebbe stato Leonardo Leale, presentato dagli Abbate come “un carissimo amico”. Ancora oggi, una delle aree in cui imporre a tappeto la fornitura, era quella del Capo, in cui il business era gestito da Francesco Arcuri e Giuseppe Corona.
Decine le conversazioni registrate durante le indagini, tra i due e Carmelo Scaglione, quest’ultimo “dipendente” di Leale. E’ proprio Corona a chiedergli come mai non avesse provveduto alla fornitura in uno dei locali del quartiere in cui la gestione era cambiata da alcuni mesi. Si trattava di “un affare che interessava entrambi”. Scaglione, d’altro canto, si era subito messo a disposizione: “Per te io mi getto dalla montagna, sicuramente perché ti rispetto assai e tu sei…” Corona a quel punto precisava: “Quel ragazzo si stava guadagnando il pane, anche se il titolare non c’è più, non è cambiato niente”. Insomma, il caffè che i clienti avrebbero bevuto in quel locale, sarebbe stato, ancora una volta, quello imposto ai titolari da Cosa nostra.
“Non vi è dubbio – si legge sull’ordinanza che ha condotto ai 32 arresti – che il controllo del settore delle forniture di caffè era uno di quelli su cui la famiglia mafiosa di Porta Nuova, fin dai tempi di Tonino Abbate, rivolgeva i propri interessi operativi”. Un business che faceva gola ai boss, tra i principali per rimpinguare le casse del clan, i quali affiliati sono anche accusati di concorrenza sleale aggravata dalle finalità mafiose: il mandamento, regno dei fratelli Di Giovanni, aveva bisogno di molti soldi e questa rientrava tra le nuove “iniziative imprenditoriali”.
Proprio come conferma un’altra delle intercettazioni, in cui il titolare di un bar spiega al suo interlocutore di essere stato costretto a rivolgersi a Francesco Arcuri: “Ma ti ha dato soldi questo? E allora perché ti sei preso questo caffé? Perché ci cacano la minchia con “per il caffè non prendere impegni … a posto”. Chi è che te l’ha detto? E chi è che me l’ha detto … Quello “dda ‘ncapu, me lo ha mandato a dire … quello che “combatte” con il caffè Francesco, me lo ha mandato a dire domenica. Vedi che a Palermo ce l’ha però qualche … un bel pò di “Barriceddi” (di bar ndr) ...ma ha sempre lo stesso problema … ha Masino di sopra”. Ma era lo stesso Arcuri ad effettuare le ordinazioni, dalle capsule alle cialde per le macchinette: “Sto facendo l’ordine… ti servono cose… dettami queste cose che ti servono che me le scrivo … dai… vedi capsule … tutto quello che ti serve… allora … nespresso capsule… mi devi dire …. dieci … rossi … blue …come ti servono… allora … cinque nere”.
D’altronde, secondo gli inquirenti, era proprio lui a gestire i movimenti di due società che operano nel settore del commercio del caffè torrefatto e aperte in pochi giorni, nel 2016, per smerciare i prodotti della Kaffeina srl. Si tratta della “Arcuri Salvatore Dario” formalmente intestata al fratello di Arcuri, e della torrefazione “Caffeina”, di Salvatore D’oca, entrambe con sede nella zona della Zisa. Dalle due ditte sarebbero partite le forniture di “oro nero” da imporre ai bar del territorio della famiglia mafiosa.