“La ’ndrangheta è viva e marcia insieme a noi”. La frase era su uno striscione portato da una ragazza quindicenne nella marcia contro la ‘ndrangheta sabato 25 settembre a Regggio Calabria. Uno slogan che riassume completamente la situazione della Calabria di oggi e che Nino Amadore, giornalista del Sole 24Ore che da anni segue quella regione per le pagine locali del suo giornale, prova a indagare nel libro in uscita per i tipi della casa editrice Rubbettino di Soveria Mannelli (Catanzaro) che appunto si intitola “La Calabria sottosopra” (115 pagine, 12 euro). Il volume,in libreria domani, è un’inchiesta sulla contaminazione culturale che la ‘ndrangheta ha saputo organizzare, permeando con i suoi uomini tutto ciò che era possibile permeare.
Un libro che prova a raccontare le conseguenze concrete del sottosviluppo mafioso cui non sono estranee le scelte e le azioni di una classe dirigente troppo a lungo legata direttamente ai famigli delle ‘ndrine o alla loro subcultura mafiosa. Ma anche una classe politica che si è allenata, a destra come a sinistra, a rappresentare interessi molto spesso opachi, molto spesso della ‘ndrangheta. Così la rappresentanza dell’illegalità è diventata un fatto naturale, scontato, tanto da far apparire ai più folle chi osa ribellarsi al potere costituito che qui non è lo stato ma il potere parallelo. La ‘ndrangheta, certo, ha capito prima degli altri che bisognava attrezzarsi e non farsi travolgere dal futuro: ha mandato i propri figli a studiare, ha occupato l’università più predisposta a certe operazioni come quella di Messina, ha fatto valere il proprio potere sul mercato degli scambi criminali con la mafia siciliana. La ‘ndrangheta si è quasi fatta classe dirigente in enti locali, province, unità sanitarie locali e mutuando i riti massonici o entrando a pieno titolo nelle logge ha portato i propri uomini nei salotti buoni. E così anche chi si credeva esente da certo malaffare criminale, come la provincia di Cosenza, non lo è più. Anche il migliore degli esperimenti come l’Università di Arcavacata a Rende, esempio di convento laico per una possibile e liberale classe dirigente del domani, ha dimostrato tutti i limiti.
Una regione che è un nodo da sciogliere perché è la dimostrazione concreta, dati alla mano e storie a bizzeffe, di come non sia possibile in Italia un vero federalismo fiscale che veda gli enti locali protagonisti per esempio della caccia agli evasori fiscali: ve lo immaginate un sindaco eletto in Calabria con i voti delle famiglie mafiose andare in cerca di evasori fiscali?O vi immaginate quel giovane primo cittadino, un professionista, il quale pur di essere eletto dice candidamente che la lotta alla ‘ndrangheta spetta allo Stato e non ai Comuni? Per non parlare degli imprenditori: alcuni (pochi) che provano a lanciare messaggi antimafia, qualche altro come Pippo Callipo che ne fa una battaglia umana, passionale, personale ma poi la butta in politica, qualche altro che pensa di darla a bere a tutti cercando alibi per continuare a fare quello che ha sempre fatto: il colluso. Pochissimi si presentano in questura o dai carabinieri per denunciare il racket o pressioni sugli appalti. C’è tutto questo e altro ancora nel libro di Amadore. Il quale indaga senza pregiudizi ma anche senza voler nascondere nulla. E guarda la Calabria ancora dal bar Bristol, il locale di fronte all’Università di Messina dove i giovani rampolli di ‘ndrangheta si fermavano a chiacchierare e qualche volta a decidere grandi strategie. Criminali.