Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, aveva appena finito di snocciolare i dati relativi al periodo agosto 2016-agosto 2019 sul numero delle ordinanze di custodia cautelare emesse per corruzione in Italia (settore degli appalti), dando alla Sicilia un disonorevole primo posto nella bad-list, ed ecco che i siciliani apprendono di altri arresti in cui sono coinvolti imprenditori e funzionari dell’area compartimentale di Catania dell’Anas.
Sulle posizioni individuali sospendiamo il giudizio seguendo gli sviluppi giudiziari della vicenda, dopo mesi di indagini condotte dalla Guardia di Finanza sotto il coordinamento della Procura di Catania, anche se in qualche caso si è proceduto in flagranza di reato e vi sarebbero già delle ammissioni e confessioni. Lo spartito è noto. Tangenti, truffe, lavori mai eseguiti, eseguiti male o parzialmente. L’operazione è stata denominata “Buche d’oro”, tanto per rendere l’idea.
Non è sull’inchiesta, però, che desidero soffermarmi ma sulle riflessioni che la stessa e il report dell’Anac mi hanno suscitato. Non solo abbiamo strade e autostrade disastrate, non solo soffriamo la piaga dei cantieri infiniti su assi fondamentali per la viabilità e il trasporto delle merci, non solo tutto ciò si accompagna alla condizione ottocentesca delle nostre ferrovie e alla fragilità complessiva della nostra economia ma dobbiamo pure fare i conti con corrotti e corruttori, siciliani, che ci rendono ancora più complicata l’esistenza contribuendo con la loro condotta criminale a perpetuare il degrado e l’arretratezza della terra in cui sono nati e che dovrebbero amare.
Qui non siamo dinanzi allo sfruttamento coloniale del Nord verso il Sud, che pure esiste ed è esistito, siamo dinanzi, per ritornare ai dati Anac sulla corruzione con la Sicilia in testa, a un fenomeno nel quale sono sistematicamente coinvolti imprenditori, dirigenti e funzionari pubblici, così disegnando un tessuto sociale ed economico, partendo dalle piccole illiceità fino a quelle più gravi, che non vede attive nello stravolgimento delle regole e nelle pratiche corruttive unicamente mafia e cattiva politica ma ampi settori della cosiddetta società civile, ovviamente con vari livelli di responsabilità diretta o indiretta.
Del resto, una ragione per cui non riusciamo ad emergere dal pantano del sottosviluppo ci deve pur essere e non può non estendersi oltre le devastanti incursioni della criminalità organizzata, il mal funzionamento delle istituzioni e la politica sicula legata potremmo dire ontologicamente alla logica del favore e della conservazione di poltrone e privilegi. No, deve esserci dell’altro che riguarda la vita fuori dai palazzi del potere, fuori dall’asfissiante oppressione di boss e gregari, del racket e del pizzo addentrandoci, piuttosto, nei meandri della falsa antimafia, delle zone grigie dei salotti bene e delle raffinatissime infiltrazioni di complici nel malaffare in giacca, cravatta e computer.
Il punto è: quanto di marcio esiste, nel rapporto tra impresa, pubblica amministrazione e politica, mai portato alla luce? Perché è evidente l’intima connessione tra il grado di ampiezza e profondità di una malattia e la percentuale di probabilità di guarigione, tra l’impatto perverso dell’economia malata e la tenuta virtuosa di un sistema che non può tollerare, senza stravolgere la corretta concorrenza e l’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, comportamenti criminali sbordanti il livello fisiologico. In definitiva, dovremmo tutti farci delle domande per comprendere meglio, evitando le lamentele da copione dei meridionali sfortunati e maltrattati, le responsabilità collettive e personali che ci condannano all’eterna marginalità rispetto al resto del Paese e dell’Europa.