Il nostro mestiere ci impone di essere imparziali, sobri, equidistanti e di non raccontare mai nulla in prima persona. Ma io non riesco a trattenere la rabbia quando penso a Paolo Leto, crocifisso a quindici anni, in una notte di Ferragosto, a un palo sulla strada di Trabia. Io che scrivo, che ho camminato – per inderogabile comandamento della professione – nelle case e accanto al cuore di gente che aveva perso un figlio, una madre, un padre, per un maledetto incidente. Quando mi capita di pensare al dolore, penso agli occhi spalancati di Carmelo Leto, padre di Paolo. Penso a papà Carmelo, alla sua dolcezza, alla sua cravatta nera, alle sue pillole per curare il lutto, medicine impotenti che non possono compiere l’unico atto veramente terapeutico: ridargli il figlio. Penso a Mamma Elda, a papà Carmelo che si metteva con la macchina, anni fa, accanto ai cancelli della scuola di Paolo, anche quando non c’era più. E osservava, in una nuvola di lacrime, altri figli e altri padri stringersi in abbracci, oppure mandarsi a quel paese. E avrebbe voluto gridare: non perdete tempo, ditevi tutto, scambiatevi l’amore come potete, perché non sapete né il giorno né l’ora. Strano il signor Carmelo? E’ che il dolore fa fare cose così. Il dolore vero è così.
Paolo mi ha accompagnato in tanti anni di professione. L’ho rivisto in ogni ragazzo crocifisso. In ogni vita spezzata per cui il cronista impara a non piangere, dopo le prime volte. E’ una questione personale. Non riesco a essere distaccato. Non riesco a rimanere indifferente quando penso che Paolo Leto è morto a quindici anni per un palo della luce sbagliato, in una notte d’estate. Non posso mantenere la calma, quando rivedo gli occhi di sua madre e di suo padre. E adesso chiedo giustizia. Giusta, ma ferma giustizia. La chiedono i genitori e i fratelli di Paolo ad altissima voce. E ne hanno diritto. La chiedo, sommessamente, anche io.