PALERMO – I mafiosi palermitani e i boss nigeriani per anni si sono affrontati a muso duro. Cosa Nostra ha organizzato spedizioni punitive contro i pusher africani, pestati a sangue perché vendevano la droga a prezzi troppo bassi. Rovinavano la piazza e credevano di potere sfuggire al controllo mafioso. Li aspettavano agli angoli delle strade e giù botte, fino a quando non imparavano la lezione.
Poi sono scesi a patti. I capimafia hanno capito che i nigeriani possono fare il lavoro sporco. Vendono eroina e crack ai tossici, mentre i palermitani si occupano della droga della borghesia, la cocaina. Il blitz della squadra mobile che ha portato all’arresto di quattro persone grazie alla ribellione di una ragazza costretta a prostituirsi riaccende i riflettori sulla criminalità organizzata nigeriana.
Che in passato non corresse buon sangue con i palermitani emergeva dalle intercettazioni del killer ergastolano Giovanni Di Giacomo che al fratello Giuseppe, assassinato nel 2014 alla Zisa, spiegava che i “turchi”, così chiamati per il colore della pelle, dovevano starsene tranquilli.
“Fatelo con il buio”
“Fatelo con il buio”, consigliava Giovanni Di Giacomo, riferendosi alla punizione da infliggere a un nigeriano che faceva “sciarriare (litigare, ndr) i ragazzi… tutte le macchine bruciate… non se ne voleva andare”. “Devono stare al loro posto… sono furbi, stai attento”, aggiungeva. E il fratello lo rassicurava: “A noi altri ce lo portano – facendo riferimento alle scorte di marijuana e hashish accumulate dagli africani capaci di monopolizzare il mercato -, vengono sotto casa e aspettano che io esco”.
Negli anni, però, i nigeriani hanno aumentato il loro potere, conquistando metro dopo metro le strade del rione Ballarò. Si sono strutturati, portando in città le regole di affiliazione “della Black Axe”, l’associazione denominata “Ascia nera”. Regole e metodi violenti, come quelli subiti dalla ragazza che con l’aiuto di un pastore pentecostale ha denunciato di essere stata costretta a prostituirsi per ripagare il debito dei soldi spesi per farla arrivare clandestinamente in Italia. La giovane donna si è rivolta al pastore, molto impegnato nel quartiere palermitano e sempre al fianco delle persone con gravi difficoltà.
Ad un certo punto i rapporti fra nigeriani e palermitani sono cambiati. Nella sezione maestrale del carcere Pagliarelli di Palermo arrivò “la palummedda”. I nigeriani non andavano toccati “perché ci hanno aiutato”. Il diktat proveniva dai vertici del mandamento di Porta Nuova. L’aiuto ricevuto riguardava i traffici di droga.
I verbali dei pentiti
Il pubblico ministero Gaspare Spedale e il sostituto procuratore generale Carlo Marzella hanno depositato alcuni verbali nel processo di appello che in primo grado ha visto cadere per gli imputati nigeriani le ipotesi di associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso ed estorsione. La Procura, però, è convinta della sua ricostruzione che in altri processi ha già retto e ieri ha chiesto condanne pesantissime per quattro imputati. La più alta – 30 anni – è stata invocata per Kingsley Chima Isoguzo, presunto capo della cellula palermitana della mafia nigeriana.
I collaboratori di giustizia Emanuele Cecala, Francesco Lombardo e Alfredo Geraci (Cecala è di Caccamo, Lombardo di Altavilla Milicia, mentre Geraci faceva parte del mandamento di Porta Nuova) hanno ricostruito un episodio del 2018.
I nigeriani che farebbero parte dell’organizzazione Black Axe arrivarono nel carcere Pagliarelli. Li piazzarono nel reparto di “Alta sorveglianza”. I mafiosi palermitani non gradivano la presenza dei “nivuri”. Li associavano a reati fastidiosi come la tratta degli esseri umani. Per mesi covò il malcontento e una mattina esplose.
La lite durante la partitella in carcere
Scoppiò una rissa, “Antonino Serenella gli ha dato due schiaffi a questo ragazzo Aifè, il coimputato di Abubakar e Abubakar giocava pure a pallone”. Un fallo di gioco durante una partitella fu solo il pretesto per mettere le cose in chiaro. Comandavano i palermitani. Rischiò di scatenarsi una vendetta dentro il carcere. Poi sarebbe arrivata “la palummedda”. Paolo Lo Iacono, mafioso di Palermo Centro, fece sapere che “si dovevano tutelare i nigeriani”. Perché? “C’era un interessamento particolare perché li usavano nel traffico di droga”.
Serenella, condannato per essere stato uomo del capomafia Alessandro D’Ambrogio, fu rimproverato. E avrebbe fatto marcia indietro, convinto da Lo Iacono, considerato il “punto di congiunzione tra la mafia palermitana e la delinquenza nigeriana”.
La notizia era arrivata anche a Cecala e Lombardo: Gino Di Salvo, boss di Bagheria, disse “che gli ordini da Palermo erano di rispettare queste persone e, se c’era di bisogno, metterci anche a disposizione se non potevano fare la spesa… venivano e cercavano u zuccaru, a pasta, un pelato, qualsiasi cosa”.
I legali delle difese si sono sempre scagliati contro la contestazione del reato di associazione mafiosa per i nigeriani e in primo grado è arrivata l’assoluzione.