PALERMO – Sei anni al boss Massimo Mulè, 5 anni e 4 mesi al cognato Vincenzo Di Grazia. Sono le pene inflitte dal giudice per l’udienza preliminare Donata Di Sarno al processo sul presunto controllo mafioso dei buttafuori nelle discoteche. pene già scontate di un terzo, così come previsto dal rito abbreviato, e inferiore alle richieste dell’accusa (8 anni per Mulè e sei per il cognato).
Entrambi restano a piede libero, visto che erano stati scarcerati dal Tribunale del Riesame che aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare. Nel frattempo prosegue il processo per gli altri imputati che hanno scelto l’ordinario.
Mulè era già stato arrestato nel blitz che azzerò il tentativo di riorganizzazione della mafia palermitana. Secondo l’accusa, che si basava sulle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, Mulè avrebbe guidato la famiglia mafiosa del rione Ballarò. Al processo, però, è stato assolto.
Quindi il nuovo arresto nell’ambito dell’inchiesta sui buttafuori imposti dalla mafia in alcuni locali notturni della città. Mulè aveva risposto all’interrogatorio, respingendo le accuse. È vero, Andrea Catalano, un altro degli arrestati, assoldava Di Grazia per il servizio di sicurezza, ma il loro rapporto era precedente al matrimonio con la sorella. Mulè giurò di non essersi speso, mai, per il cognato. Non c’era alcun bisogno che intervenisse visto il rapporto che legava Di Grazia a Catalano. E in ogni caso il cognato non ha ricevuto alcun trattamento di favore.
La difesa preannuncia ricorso in appello, anche sulla base di quanto era strato deciso dalla Cassazione.