Chi arriva a Gerusalemme rimane immediatamente colpito dalla immensa distesa di tombe che, quasi a mo’ di scacchiera, si distendono dal Monte degli Ulivi fin sotto le mura gerosolimitane. La tradizione biblica chiama questa luogo “valle di Giosafat” ed è il luogo che ebrei, cristiani e musulmani individuano per la resurrezione dell’intera umanità nel Giorno del Giudizio, ed è proprio per questo motivo che ormai da secoli i seguaci delle tre religioni monoteiste fanno di tutto per accaparrarsi un piccolo pezzo di terra per essere sepolti in questa valle e dunque essere tra i primi a risorgere nel grande giorno. Lapidi intere e lapidi rotte, bianche, grigie, crema, rosate, scoperchiate con le scritte rosicchiate; un’immensità , un’incredibile varietà di volte, cripte, catacombe, steli, monumenti funebri grandiosi, in grandissima parte ebraici, e poi anche musulmane e cristiane sono lì da secoli e sono la testimonianza atavica della volontà dell’uomo di vincere la morte e forse ancora di più sono il simbolo di una città che conosce bene la morte e anche la difficoltà di vivere ma proprio per questo alimenta la più grande delle speranze: quella di vincere per sempre il dolore e la morte. Ogni luogo a Gerusalemme può parlarci di morte, ogni pietra di Gerusalemme può raccontarci una morte, ma tutto questo parlare di morte a Gerusalemme ha un senso diverso perché si parla di morte per poter parlare di resurrezione. Nella stessa Basilica del Santo Sepolcro i luoghi della crocifissione, della sepoltura e dunque della resurrezione quasi si confondono come per ricordare che senza tombe non ci sono resurrezioni. La grandezza di Gerusalemme forse è proprio questa: la morte è direttamente proporzionale alla speranza di risorgere. La morte a Gerusalemme è costantemente presente, ma più se ne parla più si alimenta la speranza di sconfiggere definitivamente un giorno la grande Falciatrice e così forse a Gerusalemme si vive meglio che nelle altre città del mondo perché lì ogni tomba insieme ai resti mortali custodisce anche una grande speranza che invece è viva. Palermo come Gerusalemme può parlarci di morte, può avere uno stuolo di tombe dove ritrovare la nostra povera umanità oppressa non tanto dai grandi problemi internazionali ma dalla nostra triste quotidianità, ma come Gerusalemme deve trovare la capacità di non fermarsi al dato terribile della morte ma di superarlo cominciando a sperare nella resurrezione. Sì, la resurrezione comincia con la speranza di ciascuno ed ecco che allora la valle di Giosafat non è la valle dei morti, ma la valle di chi spera, così come Gerusalemme non è città di morte ma città di chi spera. L’unico augurio allora che possiamo fare a Palermo non è tanto quello di risorgere ma quello di cominciare a sperare, di fare sì che le nostre “morti sociali” ci insegnino qualcosa che ci consenta di cambiare i nostri cimiteri dove sono seppelliti i nostri morti ammazzati e dove giacciono anche democrazia, legalità, giustizia e senso civico in una valle di Giosafat luogo dove si muore ma dove nasce una invincibile speranza di un mondo migliore, di una città migliore.
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