Il magistrato Lorenzo Matassa è il pubblico ministero che intervenne la sera dell’omicidio di Pino Puglisi. Fu lui a chiedere le condanne degli assassini del sacerdote. Così ricorda quei giorni.
“Ci sono cose ben più gravi dei delitti. Queste cose si chiamano errori…” (Talleyrand). Quando il Destino appare già scritto, allora la sceneggiatura storica della morte diventa più importante dell’assassinio. La crocifissione di Gesù sarebbe stata inesplicabile senza il gesto autoassolventesi del Proconsole romano Ponzio Pilato e senza l’ipocrita accusa del Sinedrio. Solo pochi giorni prima di essere ammazzato, Don Pino “si era messo a rapporto” (esattamente come fanno i subordinati militari…) con il Cardinale. Non era stato ricevuto.
Di cosa gli avrebbe parlato? Con la logica degli avvenimenti che seguirono, gli avrebbe annunciato di essere gravemente in pericolo di vita e che il quartiere di Brancaccio era saldamente in mano a criminali lesti ad eseguire la sentenza di morte. Pochi anni prima, in una uguale situazione, Don Pino era stato già una volta “salvato”. Era parroco di Godrano (un piccolo centro non lontano da Corleone). La sua attività evangelica aveva “scassato la minchia” a Totò Riina ed ai degni compagni di merenda. In un batter d’occhio Don Pino era stato trasferito. Aveva detto “obbedisco!” al Cardinale, come se fosse stato Garibaldi davanti a Nino Bixio. Il problema d’incompatibilità ambientale (proviamo a chiamarla così…) era stato risolto.
Ed allora perché questa volta la chiesa non aveva varato la medesima procedura di protezione?
Eppure la chiesa di Palermo – almeno fino a quel momento – aveva sempre “dialogato” con tutti i peccatori mammasantissima e qualcuno, tra questi, se lo era messo pure dentro a ristrutturare la cattedrale di Palermo e quella di Monreale. Senza parlare, poi, delle “confraternite” che erano delle aggregazioni paracattoliche che Don Pino avversava (perché vi vedeva scorrere tanto denaro di provenienza non sempre chiara), ma che ogni anno, per la notte di Rosalia, erano tutte lì, in fila dietro il carro, a riempire la veste della “Santuzza” di banconote da 500 euro e, spesso, dollari brukkulinici di eguale taglio.
Insomma, che bisogno c’era di ammazzare un uomo pio che dava da mangiare agli affamati e da bere agli assetati in uno dei quartieri più poveri di Palermo? Già… perché ucciderlo? Don Pino aveva compreso il suo destino di solitudine e di abbandono già allorché la chiesa di Palermo (una delle più ricche d’Italia…) gli aveva negato il prestito per costruire il centro di aiuto ai poveri “Padre Nostro”. Aveva dovuto fare un mutuo che pagava con il suo stipendio di professore di religione. Il centro “Padre Nostro” era inviso ai mafiosi perché pensavano – sbagliando – che lì dentro si nascondessero tante “barbe finte” della catturandi.
Se era questo il movente dell’assassinio, “Cosa Nostra” stava commettendo l’ennesimo errore. Ma qualcosa d’altro doveva esservi, se la chiesa era entrata nel mirino di quei sanguinari esponenti della Cupola, altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui uno degli esecutori materiali del delitto (Gaspare Spatuzza) fu lo stesso che piazzò la bomba a San Giovanni in Laterano. Qualcuno, molto in alto, gli aveva suggerito quel luogo esatto perché era la sede del domicilio anagrafico del Papa di Roma. Il killer di terza elementare (come disse lui nel corso del suo interrogatorio) non poteva saperlo…
La notte del 15 settembre 1993, dentro il piccolo vano del pronto soccorso del Buccheri La Ferla, giaceva il corpo supino del prete. Il medico-legale stava facendo il suo meticoloso lavoro. Qualcuno bussò alla porta per annunciare che Sua Eminenza, in persona, aveva la necessità di conferire con il magistrato. Tergiversai, non comprendendo il motivo di quella impellenza. Il Cardinale insistette per entrare. Doveva assolutamente parlarmi.
Questo il dialogo che ne seguì:
“Eminenza, stiamo facendo un accertamento medico-legale è non è proprio il momento questo per intavolare una discussione.
Cosa deve dirmi di così importante da non potersi rinviare a domani?”
“Volevo chiederle se ha visto quanta gente si è assiepata all’esterno dell’ospedale, saranno migliaia.
Ebbene, questa gente, il popolo della chiesa di Palermo, vuole il suo martire e domattina alle nove desideriamo che il suo corpo sia portato in cattedrale…”
Rimasi qualche minuto a pensare quale risposta dare a quell’invito che dava prelazione alle necessità del popolo della chiesa rispetto a quelle dell’indagine di giustizia. Poi, con una punta di umorismo del quale ancora oggi mi pento, replicai.
“Eminenza, da quanti anni conosceva Don Pino Puglisi?”
La risposta non si fece attendere ed ebbe l’enfasi di chi orgogliosamente ricordava un legame.
“Da quaranta anni! Quaranta!”
“E da vivo? Vero?”
Dubbioso ed interdetto Sua Eminenza restò perplesso in attesa che completassi la risposta.
“Certo. Da vivo. Perchè mai?”
“Per la semplice ragione che io lo conosco solo da quaranta minuti e da morto.
Motivo, questo, per chiederle di permettermi di continuare a fare il mio lavoro…”