PALERMO – L’elenco degli imputati condannati si apre con il nome del boss Michele Micalizzi, 75 anni. Sarebbe stato lui a guidare la famiglia mafiosa di Tommaso Natale ed è stato condannato a 16 anni. Tante le vittime del pizzo, soprattutto fra i ristoratori di Sferracavallo e Mondello, e un solo commerciante che ha denunciato. Si è costituito parte civile con l’assistenza dei legali di Addiopizzo.
Le condanne
Questi gli altri dieci imputati: Gianluca Spanu 10 anni, Domenico Caviglia 12 anni e mezzo, Rosario Gennaro 14 anni e mezzo, Matteo Pandolfo 5 anni e 4 mesi, Carmelo Cusimano 5 anni e 10 mesi, Giuseppe Guida 3 anni e 4 mesi, Francesco Nappa 4 anni.
Gioacchino Randazzo assolto perché il fatto non sussiste dall’accusa di favoreggiamento. Per Giuseppe Micalizzi (è il figlio di Michele) e Garofalo il reato di tentata estorsione è stato riqualificato in esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed è stata emessa sentenza di non doversi procedere per difetto di querela. Micalizzi e Garofalo, difesi dagli avvocati Rosanna Vella e Angelo Brancato, sono stati subito scarcerati. Si trovavano agli arresti domiciliari da luglio 2023.
L’accusa era rappresentata dal procuratore aggiunto Marzia Sabella e dai sostituti Giovanni Antoci e Felice De Benedittis.
Il vecchio boss Micalizzi
Già nel 2017 l’allora reggente del mandamento Giulio Caporrimo, che si sfogava parlando da solo senza sapere di essere intercettato, diceva che il comportamento di Micalizzi aveva creato dei malumori: “… io sto capendo che tu vai girando ovunque con quale autorizzazione al mandamento non si capisce…“.
Rapporti con gli inzerillo
Michele Micalizzi è un nome della vecchia mafia. Genero di don Saro Riccobono, in carcere aveva già trascorso quasi un quarto di secolo. Con lui discuteva Tommaso Inzerillo uno degli scappati in America per scampare alla carneficina volita dai corleonesi negli anni Ottanta.
Micalizzi spiegava di essersi attivato affinché anche al cugino Francesco Inzerillo venisse perdonata la sua appartenenza alla mafia perdente. Tommaso Inzerillo si era rivolto ai boss che comandavano su Palermo per superare il diktat di quel “cornutone” di Nino Rotolo, boss ergastolano di Pagliarelli, il principale oppositore al rientro degli scappati caldeggiato da Salvatore Lo Piccolo, boss di San Lorenzo.
Al fianco dell’anziano boss si sarebbe mosso Gianluca Spanu. Dopo un lungo periodo trascorso in carcere Domenico Caviglia sarebbe rientrati nelle famiglie dello Zen, mentre Rosario Gennaro, avrebbe ricoperto il ruolo di soldato alle dipendenze di Amedeo Romeo di Tommaso Natale (ha scelto il rito ordinario).
“Voleva uccidere suo fratello”
A Carmelo Cusimano viene contestato il tentato omicidio del fratello Anello che si salvò perché si era spezzata la lama del coltello. Sono entrambi fratelli di Giuseppe Cusimano, reggente assieme a Francesco L’Abbate della famiglia mafiosa dello Zen.
Fu necessario l’intervento di Michele Micalizzi e Salvo Genova, boss di Resuttana, per mettere a tacere la furiosa lite.
Matteo Pandolfo assieme a Gennaro si sarebbero passati il testimone per taglieggiare una decina di ristoratori di Sferracavallo e Mondello. Avrebbero imposto protezione e forniture di pesce e frutti di mare: “Vedi che per ora il guardiano sono io qua… mi ha mandato pure il messaggio che ci sei scritto pure tu… se a me Amedeo mi dice di andare…”, diceva Gennaro.
I ristoratori chiedevano protezione
A volte erano gli stessi ristoratori a chiedere la protezione. I boss evitavano la concorrenza di possibili nuove aperture, mettevano a tacere qualche testa calda che faceva baldoria nei locali e si mettevano al riparo da furti e rapine.
“Gentilmente a che sei qua se puoi passare di là e dargli un’occhiata”, chiese un ristoratore a Gennaro che si confidava con un’amica: “Gli ho detto sì certo che lo posso fare, 150 euro per come pagano gli altri paghi tu”.
“Un bordello di soldi”
Gli affari andavano bene. Una volta la moglie di Gennaro trovò “un bordello di soldi” nel portafoglio e il “guardiano” le spiegò che “non sono tutti i miei”. Poi si gonfiava il petto: “Volevo arrivare all’intento che si devono spaventare a Sferracavallo di me… ci sono arrivato”
Vincenzo Garofalo e il figlio di Michele Micalizzi avrebbero minacciato di morte e picchiato un uomo che aveva rubato un’auto senza autorizzazione: era la macchina della moglie di Micalizzi. “L’ho macinato”, dicevano. Questa ipotesi però non è stata ritenuta un’estorsione e mancando la querela della persona offesa è arrivato il non luogo a procedere.
Giuseppe Guida e Francesco Nappa avrebbero imposto il cavallo di ritorno: soldi per restituire la macchina rubata a una donna.
Su Micalizzi, dopo la prima scarcerazione, sono piovute nuove accuse. Non solo gli affari della droga per cu è stato condannato a vent’anni nei mesi scorsi, ma anche investimenti in attività lecite per ripulire il denaro sporco.
La posizione di Addiopizzo
“Nel processo è risultata determinante la costituzione di parte civile della nostra associazione e quella dell’unico commerciante denunciante, che con l’ausilio di Addiopizzo si è liberato dal fenomeno del racket delle estorsioni”, spiegano dal Comitato, rappresentato dall’avvocato Salvo Caradonna. Pandolfo e Gennaro sono stati condanna a risarcire il ristoratore con 15 mila di provvisionale.
Il no al pizzo di un solo commerciante
“Una storia che conferma come si sia oramai creato un sistema di tutela e supporto in grado di assicurare le condizioni migliori a chi denuncia – aggiungono -. Tuttavia, se si vuole imprimere una svolta decisiva per superare fenomeni criminali ed estorsivi, occorre che la politica, a vari livelli, investa per risanare le profonde sacche di povertà e degrado che investono la città, da cui si generano fenomeni di devianza e dove diritti fondamentali come quello alla casa, al lavoro, all’istruzione e alla salute restano un miraggio per molti”.
“Non ci si può più affidare soltanto al lavoro di magistrati e forze dell’ordine, ma occorre che chi governa e amministra crei un’alternativa sociale ed economica a Cosa nostra” concludono.